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SPAZIO - STORIA è la rubrica dedicata agli avvenimenti del passato. All'interno troverete gli argomenti trattati sul mensile di ECCLESIA, relativi all'anno in corso. In ogni caso l'archivio storico è già presente nel sito, nella sua sezione specifica.
GHETTI SEGRETI (terza parte)
di Alessio Peluso
Oltre a Santa Caterina, Santa Maria al Bagno e Nardò, anche Tricase Porto prese parte all’accoglienza degli ebrei nel Natale 1943. Così vennero messe a disposizione numerose ville disabitate, tra le quali quelle di famiglie importanti e persino quella di monsignor Giovanni Panico. Gli arredi delle case furono depositati in un grande magazzino chiamato “il Teatro”, per motivi di spazio. Arrivarono inizialmente slavi ed albanesi: si trattava di persone comuni, militari e partigiani che avevano operato sotto il comando di Tito. Tra di loro vi erano anche ebrei slavi. I campi, sotto il coordinamento dei militari inglesi, in prevalenza, e americani vennero occupati per consentire l’arrivo, con una sosta relativamente lunga, ai profughi, ma funsero anche da centri di addestramento militare dei partigiani. Dal 1945 il campo rimase occupato esclusivamente da profughi ebrei e nell’estate dello stesso anno dal porto di Durazzo partirono centinaia di ebrei - albanesi, diretti a Bari; la maggior parte venne accolta proprio a Tricase Porto. La gestione dei campi tendeva a suddividere i profughi per nazione di provenienza, in modo che fosse più semplice la convivenza. Per loro dopo gli orrori della guerra e delle persecuzioni, approdare in queste località fu un sollievo inatteso. La conferma giunge dalla preziosa testimonianza di Shlomo Wissolsky, ebreo polacco che veniva da Lodz: “Tricase era un posto molto bello, si vedeva il mare, c’erano dei bar per prendere il caffè, lì spesso incontravamo e ci intrattenevamo con i pescatori del luogo. Ricordo ancora che il giorno del nostro arrivo facemmo il bagno in un mare cristallino”. Poi continua: “Siamo stati lì solo 4 mesi, cantavamo, suonavamo e parlavamo di Israele. Noi ci incontravamo con tutti i gruppi al centro di Tricase, accendevamo dei falò e stavamo intorno al fuoco. C’era una infermeria con una infermiera, lei ci accoglieva per il primo soccorso. La sensazione generale era quella di uscire dal buio per approdare alla luce. Non occorreva più temere, nascondersi, diffidare del prossimo. La gente ci accolse molto bene, ci hanno aiutato moltissimo. In Polonia e in altre nazioni c’era un forte antisemitismo, mentre in Italia non c’era”. Shlomo proveniva da una vecchia famiglia di musicisti e la sua voce ed i suoi canti hanno attraversato gli orrori della Shoah, della guerra, della sua famiglia sterminata nei campi di concentramento.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
Oltre a Santa Caterina, Santa Maria al Bagno e Nardò, anche Tricase Porto prese parte all’accoglienza degli ebrei nel Natale 1943. Così vennero messe a disposizione numerose ville disabitate, tra le quali quelle di famiglie importanti e persino quella di monsignor Giovanni Panico. Gli arredi delle case furono depositati in un grande magazzino chiamato “il Teatro”, per motivi di spazio. Arrivarono inizialmente slavi ed albanesi: si trattava di persone comuni, militari e partigiani che avevano operato sotto il comando di Tito. Tra di loro vi erano anche ebrei slavi. I campi, sotto il coordinamento dei militari inglesi, in prevalenza, e americani vennero occupati per consentire l’arrivo, con una sosta relativamente lunga, ai profughi, ma funsero anche da centri di addestramento militare dei partigiani. Dal 1945 il campo rimase occupato esclusivamente da profughi ebrei e nell’estate dello stesso anno dal porto di Durazzo partirono centinaia di ebrei - albanesi, diretti a Bari; la maggior parte venne accolta proprio a Tricase Porto. La gestione dei campi tendeva a suddividere i profughi per nazione di provenienza, in modo che fosse più semplice la convivenza. Per loro dopo gli orrori della guerra e delle persecuzioni, approdare in queste località fu un sollievo inatteso. La conferma giunge dalla preziosa testimonianza di Shlomo Wissolsky, ebreo polacco che veniva da Lodz: “Tricase era un posto molto bello, si vedeva il mare, c’erano dei bar per prendere il caffè, lì spesso incontravamo e ci intrattenevamo con i pescatori del luogo. Ricordo ancora che il giorno del nostro arrivo facemmo il bagno in un mare cristallino”. Poi continua: “Siamo stati lì solo 4 mesi, cantavamo, suonavamo e parlavamo di Israele. Noi ci incontravamo con tutti i gruppi al centro di Tricase, accendevamo dei falò e stavamo intorno al fuoco. C’era una infermeria con una infermiera, lei ci accoglieva per il primo soccorso. La sensazione generale era quella di uscire dal buio per approdare alla luce. Non occorreva più temere, nascondersi, diffidare del prossimo. La gente ci accolse molto bene, ci hanno aiutato moltissimo. In Polonia e in altre nazioni c’era un forte antisemitismo, mentre in Italia non c’era”. Shlomo proveniva da una vecchia famiglia di musicisti e la sua voce ed i suoi canti hanno attraversato gli orrori della Shoah, della guerra, della sua famiglia sterminata nei campi di concentramento.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
DAI KATORGA AI
GULAG RUSSI
di Francesco Paladini
Il nome d’esordio dei Gulag russi è “Katorga”, in greco galera, e nel ‘600 il loro scopo principale era la redenzione tramite lavoro forzato per criminali e oppositori politici dello zar. Fu solo nel 1930, sotto l'avvento di Stalin, che i Katorga vennero rinominati Gulag. Furono ristrutturati e migliorati sotto molti aspetti, permettendo un calo della mortalità nei vari centri. Nel periodo sovietico i campi non erano designati esclusivamente al lavoro forzato, ma anche all'isolamento delle categorie di persone ritenute pericolose dallo Stato: criminali, funzionari ritenuti corrotti o sabotatori, nemici politici, ex nobili e grandi proprietari terrieri, ritenuti non indispensabili per la dittatura del proletariato. Inizialmente, i Gulag non nacquero come ambienti di sterminio delle masse come i lager nazisti, ma come centri di rieducazione, per permettere a chiunque di poter far rientro nella società socialista; tuttavia, nel lungo termine divennero una macchina economica di manodopera a basso costo per il rifornimento delle materie prime. Il Gulag sovietico divenne quindi uno strumento di coercizione e di terrore nelle mani dello Zar. I prigionieri, denominati Zek, vivevano in totale stato di terrore, sottoposti a lavori forzati, sevizie da parte delle guardie e anche tra gli stessi criminali, tra i quali c'era astio. In molti casi, pur di mantenere gli Zek utili nei campi, si cercava una qualsiasi accusa per poter prolungare la loro condanna, mentre in caso di inutilità, venivano eliminati per far spazio ai nuovi arrivi. Non erano molti gli Zek che sopravvivevano nei primi mesi di permanenza a causa del sovraffollamento e delle ore di lavoro disumane (oltre 14/15 ore di lavoro nei boschi, miniere e distese ghiacciate, con temperature anche sotto i -50°). Durante la Seconda Guerra Mondiale molti di loro furono arruolati per combattere nelle fila sovietiche, mentre molti altri furono uccisi o lasciati morire per dare spazio ai prigionieri di guerra. Il 25 gennaio del 1960, il Ministero degli affari interni sovietico decise di sopprimere il sistema dei Gulag, ma rimasero attive delle colonie di lavoro forzato per prigionieri politici e di guerra che furono chiuse solo nel 1987, decretando la fine di questo sistema del terrore.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
Il nome d’esordio dei Gulag russi è “Katorga”, in greco galera, e nel ‘600 il loro scopo principale era la redenzione tramite lavoro forzato per criminali e oppositori politici dello zar. Fu solo nel 1930, sotto l'avvento di Stalin, che i Katorga vennero rinominati Gulag. Furono ristrutturati e migliorati sotto molti aspetti, permettendo un calo della mortalità nei vari centri. Nel periodo sovietico i campi non erano designati esclusivamente al lavoro forzato, ma anche all'isolamento delle categorie di persone ritenute pericolose dallo Stato: criminali, funzionari ritenuti corrotti o sabotatori, nemici politici, ex nobili e grandi proprietari terrieri, ritenuti non indispensabili per la dittatura del proletariato. Inizialmente, i Gulag non nacquero come ambienti di sterminio delle masse come i lager nazisti, ma come centri di rieducazione, per permettere a chiunque di poter far rientro nella società socialista; tuttavia, nel lungo termine divennero una macchina economica di manodopera a basso costo per il rifornimento delle materie prime. Il Gulag sovietico divenne quindi uno strumento di coercizione e di terrore nelle mani dello Zar. I prigionieri, denominati Zek, vivevano in totale stato di terrore, sottoposti a lavori forzati, sevizie da parte delle guardie e anche tra gli stessi criminali, tra i quali c'era astio. In molti casi, pur di mantenere gli Zek utili nei campi, si cercava una qualsiasi accusa per poter prolungare la loro condanna, mentre in caso di inutilità, venivano eliminati per far spazio ai nuovi arrivi. Non erano molti gli Zek che sopravvivevano nei primi mesi di permanenza a causa del sovraffollamento e delle ore di lavoro disumane (oltre 14/15 ore di lavoro nei boschi, miniere e distese ghiacciate, con temperature anche sotto i -50°). Durante la Seconda Guerra Mondiale molti di loro furono arruolati per combattere nelle fila sovietiche, mentre molti altri furono uccisi o lasciati morire per dare spazio ai prigionieri di guerra. Il 25 gennaio del 1960, il Ministero degli affari interni sovietico decise di sopprimere il sistema dei Gulag, ma rimasero attive delle colonie di lavoro forzato per prigionieri politici e di guerra che furono chiuse solo nel 1987, decretando la fine di questo sistema del terrore.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
GHETTI SEGRETI (seconda parte)
di Dario Dell'Atti
Nell’articolo precedente, abbiamo visto come la Puglia sia una terra che lega un filo diretto con Israele. Suggestiva è la storia che tratteremo oggi, ovvero quella degli ebrei di ritorno nella Terra Promessa, residenti per circa cinque anni nella piccola marina di Nardò. Sulla costa ionica tra il 1944 e il 1947 arrivarono circa 3000 ebrei di diversa nazionalità: jugoslavi, russi, turchi, lituani, tutti liberati dalle truppe alleate nei campi di concentramento. Tra le terre di Santa Maria al Bagno, Santa Caterina, Nardò e Porto Selvaggio fu allestito il “Displaced Person Camp n° 34” tra i più grandi del sud Italia, per dare ospitalità ai profughi ebrei, che sognavano di navigare il mare del Salento per rimpatriare nella terra Promessa. Questa gente stravolta dalla sorte, ritornò anche se per poco tempo, alla vita di sempre, aiutati dalla comunità locale che inizialmente si dimostrò intimorita dalla pacifica invasione, per poi riuscire a stringere legami con i sopravvissuti dallo sterminio nazista. Nelle ville requisite e concesse, gli ebrei fondarono una scuola di lingua ebraica, inglese e una di recitazione, una piccola sinagoga e un ospedale. Nell’arco di pochi anni, nacquero nuovi posti di lavoro come lavanderie, botteghe alimentari e piccoli negozi. I resti di questa breve, ma intensa permanenza, oggi li possiamo ammirare nei Murales del "Museo della memoria e dell’accoglienza di Santa Maria al Bagno”. I disegni furono realizzati da Zivi Miller un’artista, scappato ai campi di sterminio dove aveva perso tutta la famiglia. A Santa Maria al Bagno riuscì a ricostruirsi una vita sposandosi con una ragazza del posto. Il Salento per questa gente è stata una breve tappa prima del ritorno a casa, quasi un ponte verso una serenità tanto sognata.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
Nell’articolo precedente, abbiamo visto come la Puglia sia una terra che lega un filo diretto con Israele. Suggestiva è la storia che tratteremo oggi, ovvero quella degli ebrei di ritorno nella Terra Promessa, residenti per circa cinque anni nella piccola marina di Nardò. Sulla costa ionica tra il 1944 e il 1947 arrivarono circa 3000 ebrei di diversa nazionalità: jugoslavi, russi, turchi, lituani, tutti liberati dalle truppe alleate nei campi di concentramento. Tra le terre di Santa Maria al Bagno, Santa Caterina, Nardò e Porto Selvaggio fu allestito il “Displaced Person Camp n° 34” tra i più grandi del sud Italia, per dare ospitalità ai profughi ebrei, che sognavano di navigare il mare del Salento per rimpatriare nella terra Promessa. Questa gente stravolta dalla sorte, ritornò anche se per poco tempo, alla vita di sempre, aiutati dalla comunità locale che inizialmente si dimostrò intimorita dalla pacifica invasione, per poi riuscire a stringere legami con i sopravvissuti dallo sterminio nazista. Nelle ville requisite e concesse, gli ebrei fondarono una scuola di lingua ebraica, inglese e una di recitazione, una piccola sinagoga e un ospedale. Nell’arco di pochi anni, nacquero nuovi posti di lavoro come lavanderie, botteghe alimentari e piccoli negozi. I resti di questa breve, ma intensa permanenza, oggi li possiamo ammirare nei Murales del "Museo della memoria e dell’accoglienza di Santa Maria al Bagno”. I disegni furono realizzati da Zivi Miller un’artista, scappato ai campi di sterminio dove aveva perso tutta la famiglia. A Santa Maria al Bagno riuscì a ricostruirsi una vita sposandosi con una ragazza del posto. Il Salento per questa gente è stata una breve tappa prima del ritorno a casa, quasi un ponte verso una serenità tanto sognata.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
LA DISFIDA DI BARLETTA
di Francesco Paladini
Nel 1500 Francia e Spagna si allearono per conquistare il territorio italiano meridionale del governatore Federico I di Napoli. I re Luigi XII di Francia e Ferdinando II di Aragona firmarono il trattato di Granada, che accordava un egual spartizione del territorio napoletano una volta conquistato. La suddivisione del Regno di Napoli fu effettuata in quattro province: Campania, Abruzzo, Puglia e Calabria. La Campania e l'Abruzzo furono annesse alla Francia e Puglia e Calabria alla Spagna, non si tenne dunque conto delle provincie della Basilicata e Capitanata, fondate da Alfonso I d’Aragona. Da un lato, la Francia rivendicava la Capitanata poiché si praticava la transumanza, un’usanza tipica della provincia abruzzese di far svernare le greggi dal freddo degli appennini abruzzesi alle zone miti della capitanata, dall'altro gli spagnoli inquadravano quest'ultima provincia come territorio pugliese. I francesi per ripicca imposero pagamenti per il passaggio del gregge e questi introiti avrebbero soddisfatto le esigenze del proprio esercito. Così iniziarono le guerriglie di confine che culminarono nella battaglia di Cerignola del 28 aprile 1503. Il 15 gennaio dello stesso anno, i prigionieri francesi furono invitati a un banchetto indetto da Consalvo da Cordova in una cantina locale, oggi denominata Cantina della Sfida. Durante l'incontro, la Motte contestò il valore dei combattenti italiani, accusandoli di codardia, lo spagnolo Íñigo López de Ayala invece li difese. Di conseguenza, decisero di risolvere la disputa con una sfida tredici contro tredici presso un territorio neutrale in mezzo alle due provincie, Barletta. Lo scontro venne programmato in ogni minimo dettaglio: cavalli e armi degli sconfitti sarebbero stati concessi ai vincitori come premio e il riscatto di ogni sconfitto fu posto a cento ducati; furono nominati quattro giudici e due ostaggi per parte. Il 13 febbraio 1503 si scontrarono anche due battaglioni dove il capitano della squadra italiana fu Ettore Fieramosca, mentre per i francesi Guy la Motte, entrambi schierati in file opposte, una di fronte all'altra. Lo scontro fu favorevole al gruppo italiano, ma sicuri della vittoria, i francesi non portarono con loro i soldi del riscatto e furono così condotti in custodia a Barletta, dove fu Consalvo in persona a pagare il dovuto per poterli rimettere in libertà. La vittoria degli italiani fu celebrata con lunghi festeggiamenti e con una messa di ringraziamento alla Madonna, tenutasi nella Cattedrale di Barletta. Don Ferrante Caracciolo, prefetto di Bari, fece erigere nel 1583 un monumento in ricordo della Disfida nel luogo dove avvenne.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
Nel 1500 Francia e Spagna si allearono per conquistare il territorio italiano meridionale del governatore Federico I di Napoli. I re Luigi XII di Francia e Ferdinando II di Aragona firmarono il trattato di Granada, che accordava un egual spartizione del territorio napoletano una volta conquistato. La suddivisione del Regno di Napoli fu effettuata in quattro province: Campania, Abruzzo, Puglia e Calabria. La Campania e l'Abruzzo furono annesse alla Francia e Puglia e Calabria alla Spagna, non si tenne dunque conto delle provincie della Basilicata e Capitanata, fondate da Alfonso I d’Aragona. Da un lato, la Francia rivendicava la Capitanata poiché si praticava la transumanza, un’usanza tipica della provincia abruzzese di far svernare le greggi dal freddo degli appennini abruzzesi alle zone miti della capitanata, dall'altro gli spagnoli inquadravano quest'ultima provincia come territorio pugliese. I francesi per ripicca imposero pagamenti per il passaggio del gregge e questi introiti avrebbero soddisfatto le esigenze del proprio esercito. Così iniziarono le guerriglie di confine che culminarono nella battaglia di Cerignola del 28 aprile 1503. Il 15 gennaio dello stesso anno, i prigionieri francesi furono invitati a un banchetto indetto da Consalvo da Cordova in una cantina locale, oggi denominata Cantina della Sfida. Durante l'incontro, la Motte contestò il valore dei combattenti italiani, accusandoli di codardia, lo spagnolo Íñigo López de Ayala invece li difese. Di conseguenza, decisero di risolvere la disputa con una sfida tredici contro tredici presso un territorio neutrale in mezzo alle due provincie, Barletta. Lo scontro venne programmato in ogni minimo dettaglio: cavalli e armi degli sconfitti sarebbero stati concessi ai vincitori come premio e il riscatto di ogni sconfitto fu posto a cento ducati; furono nominati quattro giudici e due ostaggi per parte. Il 13 febbraio 1503 si scontrarono anche due battaglioni dove il capitano della squadra italiana fu Ettore Fieramosca, mentre per i francesi Guy la Motte, entrambi schierati in file opposte, una di fronte all'altra. Lo scontro fu favorevole al gruppo italiano, ma sicuri della vittoria, i francesi non portarono con loro i soldi del riscatto e furono così condotti in custodia a Barletta, dove fu Consalvo in persona a pagare il dovuto per poterli rimettere in libertà. La vittoria degli italiani fu celebrata con lunghi festeggiamenti e con una messa di ringraziamento alla Madonna, tenutasi nella Cattedrale di Barletta. Don Ferrante Caracciolo, prefetto di Bari, fece erigere nel 1583 un monumento in ricordo della Disfida nel luogo dove avvenne.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
GHETTI SEGRETI (prima parte)
di Dario Dell’Atti
Il termine “ghetto” nella concezione contemporanea, indica un quartiere all’interno della città dove vivono persone, che nella maggior parte dei casi condividono cultura, religione o etnia. La storia vuole che i ghetti più famosi nelle città europee, erano per importanza e grandezza quelli ebraici. Se tra le mura della città di Roma e Venezia sorgevano i più grandi d’Italia, anche i centri storici delle cittadine Pugliesi, presentano le tracce di popoli (oggi) israeliani. Grazie alle numerose fonti storiche, è stata confermata la presenza di comunità ebraiche a Brindisi, durante il periodo della Repubblica Romana, ma anche a Bari, Taranto, Lecce (quest’ultima oggi sede del Jewish Museum). Durante il periodo normanno, numerose erano le città che condividevano una pace cristiano - giudaica, tra queste vi erano Barletta, Otranto, Gallipoli, Monopoli ma soprattutto Trani, che nella “Giudecca” (una zona della città vecchia ancora visitabile) ospitava cortili, vicoli e antiche mura, disegnando uno dei centri più grandi del meridione, con ben 4 sinagoghe, convertite successivamente in chiese cattoliche. Altri due centri importanti si trovano nel Salento, precisamente a Manduria ed Oria. Ancora oggi nel centro storico della città famosa per il “Primitivo”, possiamo trovare la Sinagoga e le tracce delle porte del ghetto costruite nel 1555. Fu Papa Paolo IV a istituire la legge che recintava, tramite la costruzione di porte, i quartieri ebraici di tutta Italia causando il forte ridimensionamento della vita economica e sociale. Ancora nel Salento, precisamente a Oria vi è la Porta degli Ebrei che conduceva alla comunità ebraica della cittadina, una delle più fiorenti del mediterraneo fino al 1600.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
Il termine “ghetto” nella concezione contemporanea, indica un quartiere all’interno della città dove vivono persone, che nella maggior parte dei casi condividono cultura, religione o etnia. La storia vuole che i ghetti più famosi nelle città europee, erano per importanza e grandezza quelli ebraici. Se tra le mura della città di Roma e Venezia sorgevano i più grandi d’Italia, anche i centri storici delle cittadine Pugliesi, presentano le tracce di popoli (oggi) israeliani. Grazie alle numerose fonti storiche, è stata confermata la presenza di comunità ebraiche a Brindisi, durante il periodo della Repubblica Romana, ma anche a Bari, Taranto, Lecce (quest’ultima oggi sede del Jewish Museum). Durante il periodo normanno, numerose erano le città che condividevano una pace cristiano - giudaica, tra queste vi erano Barletta, Otranto, Gallipoli, Monopoli ma soprattutto Trani, che nella “Giudecca” (una zona della città vecchia ancora visitabile) ospitava cortili, vicoli e antiche mura, disegnando uno dei centri più grandi del meridione, con ben 4 sinagoghe, convertite successivamente in chiese cattoliche. Altri due centri importanti si trovano nel Salento, precisamente a Manduria ed Oria. Ancora oggi nel centro storico della città famosa per il “Primitivo”, possiamo trovare la Sinagoga e le tracce delle porte del ghetto costruite nel 1555. Fu Papa Paolo IV a istituire la legge che recintava, tramite la costruzione di porte, i quartieri ebraici di tutta Italia causando il forte ridimensionamento della vita economica e sociale. Ancora nel Salento, precisamente a Oria vi è la Porta degli Ebrei che conduceva alla comunità ebraica della cittadina, una delle più fiorenti del mediterraneo fino al 1600.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
VIAGGIO NELLA MEMORIA:
"IO VI RICORDO"
di Aurora Paladini
Realtà e manipolazione. Memoria e indifferenza. Umano e disumano. Identità e negazione. A quasi due anni dal mio Treno, non posso ancora dire di aver metabolizzato tutto quello che ho visto e che ho sentito in meno di una settimana. Lo dimostra, forse, il mio diario di viaggio che si ferma bruscamente al giorno precedente alla visita dei campi di Auschwitz e Birkenau, simboli del più eclatante e sconvolgente processo di annientamento dell’altro nella nostra storia. Gli episodi storici sono noti a tutti. Il lato oscuro della luna, però, spesso viene ignorato ed è talmente irrazionale, crudo, impossibile, talmente difficile da credere reale da aver dato persino adito ai primi negazionisti della storia. Tuttavia, i numeri non sono la parte sconvolgente. Di sconvolgente c’è il processo che giorno dopo giorno, anno dopo anno, ha portato milioni di persone a diventare non - persone, a non - essere. Immagina di essere tu, italiano o italiana, nell’occhio del ciclone. Immagina che da domani ti venisse vietato di esercitare la tua professione, perché sei italiano. Immagina che ai tuoi figli venisse poi vietata l’istruzione. Immagina che poi ti venisse vietato di frequentare chi, a differenza tua, non è italiano. Immagina che poi tu venga cacciato dalla tua stessa casa, perdendo così definitivamente ogni diritto economico. Immagina, poi, di essere trasferito in un “campo di protezione”, dove ti verrà tolto il nome, ti verranno tolti i vestiti, i capelli, tutti i tuoi beni e sarai separato dalla tua famiglia. Non potrai più nemmeno decidere quando andare in bagno o quando andare a dormire. Perché hai una sola colpa: sei. E allora, arrivati a questo punto, cosa resta di un essere umano? La morte fisica diventa un dettaglio marginale perché, in realtà, sei già morto: senza identità, senza il minimo diritto, senza umanità. Il Treno della Memoria può essere raccontato, ma soltanto viverlo può portare ognuno dentro ad un capitolo di storia delicato, tanto che entrare nei luoghi della follia ti fa sentire ladro della tragica storia di qualcun altro. In un vortice confuso di sensazioni, una cosa è chiara: quanto è successo fa parte del passato; il nostro presente e il nostro futuro, però, non sono immuni. La logica della sopraffazione, della disumanizzazione, della negazione dell’altro, è sempre un rischio che si cela dietro alle forme più impensabili. La nostra percezione dell’altro può essere facilmente manipolata. Abbiamo un’unica e sola arma contro la follia e l’indifferenza che hanno ucciso milioni di persone: la memoria. Ricordare e contestualizzare. Dire ogni giorno, come prima dell’uscita dal campo di Birkenau: “Io vi ricordo”. E questo perché non accada mai più.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
Realtà e manipolazione. Memoria e indifferenza. Umano e disumano. Identità e negazione. A quasi due anni dal mio Treno, non posso ancora dire di aver metabolizzato tutto quello che ho visto e che ho sentito in meno di una settimana. Lo dimostra, forse, il mio diario di viaggio che si ferma bruscamente al giorno precedente alla visita dei campi di Auschwitz e Birkenau, simboli del più eclatante e sconvolgente processo di annientamento dell’altro nella nostra storia. Gli episodi storici sono noti a tutti. Il lato oscuro della luna, però, spesso viene ignorato ed è talmente irrazionale, crudo, impossibile, talmente difficile da credere reale da aver dato persino adito ai primi negazionisti della storia. Tuttavia, i numeri non sono la parte sconvolgente. Di sconvolgente c’è il processo che giorno dopo giorno, anno dopo anno, ha portato milioni di persone a diventare non - persone, a non - essere. Immagina di essere tu, italiano o italiana, nell’occhio del ciclone. Immagina che da domani ti venisse vietato di esercitare la tua professione, perché sei italiano. Immagina che ai tuoi figli venisse poi vietata l’istruzione. Immagina che poi ti venisse vietato di frequentare chi, a differenza tua, non è italiano. Immagina che poi tu venga cacciato dalla tua stessa casa, perdendo così definitivamente ogni diritto economico. Immagina, poi, di essere trasferito in un “campo di protezione”, dove ti verrà tolto il nome, ti verranno tolti i vestiti, i capelli, tutti i tuoi beni e sarai separato dalla tua famiglia. Non potrai più nemmeno decidere quando andare in bagno o quando andare a dormire. Perché hai una sola colpa: sei. E allora, arrivati a questo punto, cosa resta di un essere umano? La morte fisica diventa un dettaglio marginale perché, in realtà, sei già morto: senza identità, senza il minimo diritto, senza umanità. Il Treno della Memoria può essere raccontato, ma soltanto viverlo può portare ognuno dentro ad un capitolo di storia delicato, tanto che entrare nei luoghi della follia ti fa sentire ladro della tragica storia di qualcun altro. In un vortice confuso di sensazioni, una cosa è chiara: quanto è successo fa parte del passato; il nostro presente e il nostro futuro, però, non sono immuni. La logica della sopraffazione, della disumanizzazione, della negazione dell’altro, è sempre un rischio che si cela dietro alle forme più impensabili. La nostra percezione dell’altro può essere facilmente manipolata. Abbiamo un’unica e sola arma contro la follia e l’indifferenza che hanno ucciso milioni di persone: la memoria. Ricordare e contestualizzare. Dire ogni giorno, come prima dell’uscita dal campo di Birkenau: “Io vi ricordo”. E questo perché non accada mai più.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
AMERICA: IMPAZZA
LA CORSA ALL'ORO
di Francesco Paladini
Nel 1848 a scoprire il primo filone d’oro fu James Wilson Marshall, un operaio alle dipendenze del pioniere svizzero Johan Suter. Quest’ultimo si trasferì in America nel 1834, sulle rive del fiume Sacramento in Sierra Nevada, territorio centrale della California, con la speranza di costruire un impero economico sulla West - cost, dato che nell’ ‘800 era ancora un territorio conteso tra i nativi americani, i californiani messicani, americani e alcuni insediamenti europei. La scoperta dell’oro poteva difatti essere l’imprevisto che avrebbe reso reale la nascita del suo progetto, ma così non fu; questo perché la notizia dell’esistenza di giacimenti d’oro raggiunse anche la Est - cost. Il 5 dicembre 1848 il presidente degli Stati Uniti James Knox Polk annunciò che erano state scoperte grandi quantità d'oro in California. Cominciò così quella che oggi è conosciuta come febbre dell’oro o più comunemente “Corsa all’oro”, uno dei periodi più assurdi della storia americana. Si basti pensare che migliaia di cercatori partirono verso il nuovo continente, sulle note della canzone folk “Oh Susanna” di Stephen Foster, poi riconosciuta inno del periodo, in cerca di fortuna. Quelle che prima venivano considerate terre desolate, cominciarono a popolarsi: la città di San Francisco, che inizialmente contava meno di 600 abitanti, arrivò a contare nel 1856 più di 50000 abitanti, divenendo così la più grande ed importante città della West -cost. La corsa all’oro non portò solo benefici, infatti, pochi furono i pionieri divenuti ricchi dall’oro ricavato. Molti di loro morirono durante il viaggio in California, di colera o nei campi auriferi. Colui che per primo scoprì l’oro fu pesantemente indebitato da questo afflusso di minatori, molte delle sue coltivazioni furono distrutte e anche le sue dimore furono invase da quest’ultimi. Il suo impero, tanto desiderato e ambito, fu stroncato sul nascere e lui morì in povertà nel 1885.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
Nel 1848 a scoprire il primo filone d’oro fu James Wilson Marshall, un operaio alle dipendenze del pioniere svizzero Johan Suter. Quest’ultimo si trasferì in America nel 1834, sulle rive del fiume Sacramento in Sierra Nevada, territorio centrale della California, con la speranza di costruire un impero economico sulla West - cost, dato che nell’ ‘800 era ancora un territorio conteso tra i nativi americani, i californiani messicani, americani e alcuni insediamenti europei. La scoperta dell’oro poteva difatti essere l’imprevisto che avrebbe reso reale la nascita del suo progetto, ma così non fu; questo perché la notizia dell’esistenza di giacimenti d’oro raggiunse anche la Est - cost. Il 5 dicembre 1848 il presidente degli Stati Uniti James Knox Polk annunciò che erano state scoperte grandi quantità d'oro in California. Cominciò così quella che oggi è conosciuta come febbre dell’oro o più comunemente “Corsa all’oro”, uno dei periodi più assurdi della storia americana. Si basti pensare che migliaia di cercatori partirono verso il nuovo continente, sulle note della canzone folk “Oh Susanna” di Stephen Foster, poi riconosciuta inno del periodo, in cerca di fortuna. Quelle che prima venivano considerate terre desolate, cominciarono a popolarsi: la città di San Francisco, che inizialmente contava meno di 600 abitanti, arrivò a contare nel 1856 più di 50000 abitanti, divenendo così la più grande ed importante città della West -cost. La corsa all’oro non portò solo benefici, infatti, pochi furono i pionieri divenuti ricchi dall’oro ricavato. Molti di loro morirono durante il viaggio in California, di colera o nei campi auriferi. Colui che per primo scoprì l’oro fu pesantemente indebitato da questo afflusso di minatori, molte delle sue coltivazioni furono distrutte e anche le sue dimore furono invase da quest’ultimi. Il suo impero, tanto desiderato e ambito, fu stroncato sul nascere e lui morì in povertà nel 1885.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
ATTACCO TOP - SECRET,
BARI SOTTO ASSEDIO
di Dario Dell’Atti
Non tutti sanno che l’attacco aereo di Bari è stata una delle battaglie più sanguinose della Seconda Guerra Mondiale. Esattamente come l’attacco di Pearl Harbor, gli alleati che stanziavano nel porto della cittadina pugliese, vennero colti di sorpresa dagli attacchi aerei nemici. La sera del 2 dicembre 1943, Bari brillò alle bombe dei 105 bombardieri Junkers Ju 88 della Luftflotte tedesca. L’obiettivo era quello di rendere inagibile il porto, essenziale per i rifornimenti dell’armata inglese e punto d’arrivo delle “piste assemblate”: grossi tralicci di ferro essenziali per la costruzione degli aeroporti. La pioggia al tritolo durò alcune ore: 17 navi cargo furono affondate, 8 gravemente danneggiate, circa 19 mila barili di carburante versati in mare. Lo scenario era terrificante, i morti tra civili e militari furono più di 2000, quasi il numero delle vittime di Pearl Harbor (2400). Il mare era una pozza di greggio, iceberg di navi rovesciate affondavano lentamente, mentre le reti dei pescatori venivano utilizzate per riprendere i corpi degli sventurati. L’ospedale si riempì subito di uomini feriti, diversi erano i mutilati, l’immagine dell’apocalisse degna delle migliori sventure di guerra sembrava completata. Invece non fu così. Diversi giorni dopo, numerosi soldati e civili affollarono nuovamente l’ospedale, i referti medici parlavano di forti dermatiti che si trasformavano in enormi vesciche, bruciori agli occhi che portavano alla cecità. Gli ufficiali anglo-americani fecero presto a insabbiare tutto. Solo una volta finita la guerra a fine anni ‘60, si scoprì che tra le navi affondate vi era la Jon Harvey che trasportava bombe all’iprite, una sostanza velenosa vietata per legge in battaglia. Le bonifiche dei fondali del porto di Bari vennero completate negli anni ’70; fino ad allora le reti che venivano a contatto con il fondo contaminato dall’iprite, avvelenavano i pescatori. Questa storia (per evitare scandali) fu nascosta e infatti non è tra le più conosciute della Seconda Guerra Mondiale, per cui spetta a noi onorare il ricordo dei caduti e dare il giusto valore agli eventi storici che riguardano la nostra terra.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
Non tutti sanno che l’attacco aereo di Bari è stata una delle battaglie più sanguinose della Seconda Guerra Mondiale. Esattamente come l’attacco di Pearl Harbor, gli alleati che stanziavano nel porto della cittadina pugliese, vennero colti di sorpresa dagli attacchi aerei nemici. La sera del 2 dicembre 1943, Bari brillò alle bombe dei 105 bombardieri Junkers Ju 88 della Luftflotte tedesca. L’obiettivo era quello di rendere inagibile il porto, essenziale per i rifornimenti dell’armata inglese e punto d’arrivo delle “piste assemblate”: grossi tralicci di ferro essenziali per la costruzione degli aeroporti. La pioggia al tritolo durò alcune ore: 17 navi cargo furono affondate, 8 gravemente danneggiate, circa 19 mila barili di carburante versati in mare. Lo scenario era terrificante, i morti tra civili e militari furono più di 2000, quasi il numero delle vittime di Pearl Harbor (2400). Il mare era una pozza di greggio, iceberg di navi rovesciate affondavano lentamente, mentre le reti dei pescatori venivano utilizzate per riprendere i corpi degli sventurati. L’ospedale si riempì subito di uomini feriti, diversi erano i mutilati, l’immagine dell’apocalisse degna delle migliori sventure di guerra sembrava completata. Invece non fu così. Diversi giorni dopo, numerosi soldati e civili affollarono nuovamente l’ospedale, i referti medici parlavano di forti dermatiti che si trasformavano in enormi vesciche, bruciori agli occhi che portavano alla cecità. Gli ufficiali anglo-americani fecero presto a insabbiare tutto. Solo una volta finita la guerra a fine anni ‘60, si scoprì che tra le navi affondate vi era la Jon Harvey che trasportava bombe all’iprite, una sostanza velenosa vietata per legge in battaglia. Le bonifiche dei fondali del porto di Bari vennero completate negli anni ’70; fino ad allora le reti che venivano a contatto con il fondo contaminato dall’iprite, avvelenavano i pescatori. Questa storia (per evitare scandali) fu nascosta e infatti non è tra le più conosciute della Seconda Guerra Mondiale, per cui spetta a noi onorare il ricordo dei caduti e dare il giusto valore agli eventi storici che riguardano la nostra terra.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
CARTER E LA TOMBA
DI TUTANKHAMON
di Francesco Paladini
Le piramidi, meraviglie dell’architettura antica, sono tombe maestose costruite per ospitare colui che incarnava il dio Ra sceso in terra: il faraone. Nel periodo tra il XIX e il XX secolo, innumerevoli gli scavi e perlustrazioni lungo tutto il Nilo da parte degli archeologi per riportare alla luce ricchezze sotterrate dal tempo. Tra questi Howard Carter, archeologo britannico al quale si attribuisce la straordinaria scoperta della tomba di Tutankhamon. Il progetto iniziale prevedeva il ritrovamento delle tombe dei due faraoni della XVIII dinastia: Amenothep e il suo successore Tutankhamon. Gli scavi furono effettuati da lord George Herbert, appassionato di antichità egizie, che ottenne i permessi per gli scavi nella valle dei re. Il progetto fu inizialmente un fiasco e le spese gravose fecero scemare l’entusiasmo del lord. Al contrario, Carter credeva fortemente in questo progetto. Così, il 4 novembre del 1922, Carter rinvenne uno scalino emerso dalla sabbia di fronte l’ingresso della tomba di Ramses VI, che lo portò ad una grande parete intonacata che preservava ancora il sigillo della necropoli reale intatto. Da questo particolare riconobbe subito la presenza di una tomba reale ancora preservata. Dopo la scoperta Carter decise di condividere le informazioni con il lord e lo invitò a presenziare all’apertura della tomba, che avvenne solo il 17 novembre 1922. Abbattuta la parete trovata da Carter in precedenza, si ritrovarono in una stanza vari oggetti del corredo funerario: letti dorati, vasi di alabastro, carri smontati e un trono contornato da materiali preziosi. Dopo aver perlustrato la stanza si accorsero di una parete murata in maniera anomala rispetto alle altre. Carter e la sua équipe perforarono il muro ritrovandosi di fronte il sarcofago e i vasi canopi del faraone. Nel febbraio del 1924 venne aperto il sarcofago d’oro massiccio contenente il corpo mummificato del faraone Tutankhamon. La mummia, ancora in stato ottimale, fu ritrovata con addosso una maschera, anch’essa d’oro, ritraente il volto del faraone bambino. La maschera e gli oltre 2000 reperti rinvenuti nella tomba sono tutt’ora esposti nel Museo Egizio del Cairo.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
Le piramidi, meraviglie dell’architettura antica, sono tombe maestose costruite per ospitare colui che incarnava il dio Ra sceso in terra: il faraone. Nel periodo tra il XIX e il XX secolo, innumerevoli gli scavi e perlustrazioni lungo tutto il Nilo da parte degli archeologi per riportare alla luce ricchezze sotterrate dal tempo. Tra questi Howard Carter, archeologo britannico al quale si attribuisce la straordinaria scoperta della tomba di Tutankhamon. Il progetto iniziale prevedeva il ritrovamento delle tombe dei due faraoni della XVIII dinastia: Amenothep e il suo successore Tutankhamon. Gli scavi furono effettuati da lord George Herbert, appassionato di antichità egizie, che ottenne i permessi per gli scavi nella valle dei re. Il progetto fu inizialmente un fiasco e le spese gravose fecero scemare l’entusiasmo del lord. Al contrario, Carter credeva fortemente in questo progetto. Così, il 4 novembre del 1922, Carter rinvenne uno scalino emerso dalla sabbia di fronte l’ingresso della tomba di Ramses VI, che lo portò ad una grande parete intonacata che preservava ancora il sigillo della necropoli reale intatto. Da questo particolare riconobbe subito la presenza di una tomba reale ancora preservata. Dopo la scoperta Carter decise di condividere le informazioni con il lord e lo invitò a presenziare all’apertura della tomba, che avvenne solo il 17 novembre 1922. Abbattuta la parete trovata da Carter in precedenza, si ritrovarono in una stanza vari oggetti del corredo funerario: letti dorati, vasi di alabastro, carri smontati e un trono contornato da materiali preziosi. Dopo aver perlustrato la stanza si accorsero di una parete murata in maniera anomala rispetto alle altre. Carter e la sua équipe perforarono il muro ritrovandosi di fronte il sarcofago e i vasi canopi del faraone. Nel febbraio del 1924 venne aperto il sarcofago d’oro massiccio contenente il corpo mummificato del faraone Tutankhamon. La mummia, ancora in stato ottimale, fu ritrovata con addosso una maschera, anch’essa d’oro, ritraente il volto del faraone bambino. La maschera e gli oltre 2000 reperti rinvenuti nella tomba sono tutt’ora esposti nel Museo Egizio del Cairo.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
ONORE AI CADUTI:
COSIMO ALBANO
di Alessio Peluso
È il 7 maggio 1945 quando la Germania, che aveva già perso Hitler, si dichiara sconfitta al termine della Seconda Guerra Mondiale. Qualche mese più tardi stesso analogo epilogo per il Giappone devastato dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki tra il 6 e il 9 agosto, sganciate dagli Stati Uniti. Anche l’Italia esce fuori con le ossa rotta dal secondo conflitto mondiale, contando le innumerevoli vittime. Molte di esse sono riportate in Piazza “Alcide De Gasperi” a Porto Cesareo, zona Pro Loco. Lì vige il monumento ai Caduti in Guerra. Nelle passate edizioni 2018 e 2019 il grande protagonista era stato Luigi De Donno, al quale è dedicata una via e il libro di Enzo Poci, “Porto Cesareo saluta il suo marinaio” disponibile presso la Biblioteca Alberti. Il 2020 invece lascia spazio alla figura di Cosimo Damiano Albano, nato a Nardò l’8 gennaio 1921. Militare di marina, matricola 48795, fu imbarcato sul sommergibile Bronzo e perse la vita a causa di una raffica di mitragliera, mentre era sul cannone di prora. Correva il 12 luglio 1943 e aveva solo 22 anni. Il sommergibile Bronzo consegnato alla Regia Marina il 12 agosto 1942 dallo stabilimento Tosi di Taranto, rappresentava un gioiello per il tempo: armamento di 6 tubi da lancio, cannone da 100/47 mm e due mitragliatrici antiaeree da 13,2 mm. La mascotte del sommergibile era dipinta nella falsa torre e rappresentava uno dei cuccioli dei sette nani. Quattro ufficiali e 40 marinai sopperirono insieme ad altri sommergibili nella battaglia di Sicilia. Quel maledetto 12 luglio, nel tentativo di contrastare quattro navi inglesi, fu costretto ad emergere a causa di avarie subite, provando a combattere con il solo cannone. Fu abbordato dal dragamine inglese Seaham e portato nella banchina numero 5 del Porto di Siracusa. Oltre a Cosimo persero la vita il comandante tenente di vascello Antonio Gherardi, il sottotenente Giuseppe Pellegrini e altri 5 marinai. L’attuale Associazione Nazionale Marinai d’Italia di Porto Cesareo, comunemente A.M.N.I., è dedicata a Cosimo Albano. I resti mortali ora si trovano nel nostro cimitero grazie all’impegno e alle numerose battaglie burocratiche di Felice Greco e Doriano Minosa. Il 6 settembre 1989, alla presenza dell’allora sindaco Fernando Cardellicchio, si organizzò una grande cerimonia di accoglienza alla presenza dei familiari e delle autorità civili.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
È il 7 maggio 1945 quando la Germania, che aveva già perso Hitler, si dichiara sconfitta al termine della Seconda Guerra Mondiale. Qualche mese più tardi stesso analogo epilogo per il Giappone devastato dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki tra il 6 e il 9 agosto, sganciate dagli Stati Uniti. Anche l’Italia esce fuori con le ossa rotta dal secondo conflitto mondiale, contando le innumerevoli vittime. Molte di esse sono riportate in Piazza “Alcide De Gasperi” a Porto Cesareo, zona Pro Loco. Lì vige il monumento ai Caduti in Guerra. Nelle passate edizioni 2018 e 2019 il grande protagonista era stato Luigi De Donno, al quale è dedicata una via e il libro di Enzo Poci, “Porto Cesareo saluta il suo marinaio” disponibile presso la Biblioteca Alberti. Il 2020 invece lascia spazio alla figura di Cosimo Damiano Albano, nato a Nardò l’8 gennaio 1921. Militare di marina, matricola 48795, fu imbarcato sul sommergibile Bronzo e perse la vita a causa di una raffica di mitragliera, mentre era sul cannone di prora. Correva il 12 luglio 1943 e aveva solo 22 anni. Il sommergibile Bronzo consegnato alla Regia Marina il 12 agosto 1942 dallo stabilimento Tosi di Taranto, rappresentava un gioiello per il tempo: armamento di 6 tubi da lancio, cannone da 100/47 mm e due mitragliatrici antiaeree da 13,2 mm. La mascotte del sommergibile era dipinta nella falsa torre e rappresentava uno dei cuccioli dei sette nani. Quattro ufficiali e 40 marinai sopperirono insieme ad altri sommergibili nella battaglia di Sicilia. Quel maledetto 12 luglio, nel tentativo di contrastare quattro navi inglesi, fu costretto ad emergere a causa di avarie subite, provando a combattere con il solo cannone. Fu abbordato dal dragamine inglese Seaham e portato nella banchina numero 5 del Porto di Siracusa. Oltre a Cosimo persero la vita il comandante tenente di vascello Antonio Gherardi, il sottotenente Giuseppe Pellegrini e altri 5 marinai. L’attuale Associazione Nazionale Marinai d’Italia di Porto Cesareo, comunemente A.M.N.I., è dedicata a Cosimo Albano. I resti mortali ora si trovano nel nostro cimitero grazie all’impegno e alle numerose battaglie burocratiche di Felice Greco e Doriano Minosa. Il 6 settembre 1989, alla presenza dell’allora sindaco Fernando Cardellicchio, si organizzò una grande cerimonia di accoglienza alla presenza dei familiari e delle autorità civili.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
IL MASSACRO DEL PREZZEMOLO
di Francesco Paladini
La parola etnia deriva dal greco “ethnos”, popolo o nazione, e va ad indicare una comunità di persone che condividono caratteri culturali, storici o religiosi. Nel mondo contiamo diverse etnie che vivono in armonia tra di loro. Ma non sempre è così, difatti possiamo constatare come etnie che si considerino superiori denigrino etnie considerabili minori, dato il numero ridotto di soggetti. La storia ci insegna come l’odio verso le etnie minori possa sfociare in atti di guerriglia e massacri: basti ricordare il regime nazista o il massacro delle foibe, nelle quali molti civili e soldati italiani perirono, o il conflitto arabo-israeliano. Pochi conoscono però un altro evento che si può considerare di egual misura, ovvero il “Massacro del prezzemolo”. Noto nella Repubblica domenicana come “El corte” (il taglio) e ad Haiti come Kouto – A (coltello), questo massacro viene tutt’oggi ricordato come la pulizia etnica attuata dal regime populista domenicano guidato da Rafael Leonidas Trujillo Molina nel 1937, nei confronti della minoranza haitiana residente nella Repubblica Domenicana. Trujillo era un nazionalista e xenofobo ed adottò una politica razzista e feroce verso gli immigrati haitiani, sminuendo le loro origini e tradizioni arcaiche, per promuovere la superiorità culturale dei domenicani. L’ordine di sterminio portò alla morte di circa 20000 haitiani in soli 5 giorni. La selezione avvenne attraverso un metodo alquanto discutibile: ai soldati fu consigliato di portare un rametto di "perejil" (in spagnolo prezzemolo) e chiedere cosa fosse alla gente incontrata: chi non fosse riuscito ad esclamare la parola perfettamente, sarebbe stato molto probabilmente una persona di origine haitiana. Gli omicidi, nella maggior parte dei casi, avvennero con l’ausilio di armi bianche per dare l’impressione che le uccisioni fossero opera non dei militari, ma dei contadini domenicani. I corpi delle vittime furono gettati nel confine tra i due paesi, nel fiume Rio Masacre.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2020
La parola etnia deriva dal greco “ethnos”, popolo o nazione, e va ad indicare una comunità di persone che condividono caratteri culturali, storici o religiosi. Nel mondo contiamo diverse etnie che vivono in armonia tra di loro. Ma non sempre è così, difatti possiamo constatare come etnie che si considerino superiori denigrino etnie considerabili minori, dato il numero ridotto di soggetti. La storia ci insegna come l’odio verso le etnie minori possa sfociare in atti di guerriglia e massacri: basti ricordare il regime nazista o il massacro delle foibe, nelle quali molti civili e soldati italiani perirono, o il conflitto arabo-israeliano. Pochi conoscono però un altro evento che si può considerare di egual misura, ovvero il “Massacro del prezzemolo”. Noto nella Repubblica domenicana come “El corte” (il taglio) e ad Haiti come Kouto – A (coltello), questo massacro viene tutt’oggi ricordato come la pulizia etnica attuata dal regime populista domenicano guidato da Rafael Leonidas Trujillo Molina nel 1937, nei confronti della minoranza haitiana residente nella Repubblica Domenicana. Trujillo era un nazionalista e xenofobo ed adottò una politica razzista e feroce verso gli immigrati haitiani, sminuendo le loro origini e tradizioni arcaiche, per promuovere la superiorità culturale dei domenicani. L’ordine di sterminio portò alla morte di circa 20000 haitiani in soli 5 giorni. La selezione avvenne attraverso un metodo alquanto discutibile: ai soldati fu consigliato di portare un rametto di "perejil" (in spagnolo prezzemolo) e chiedere cosa fosse alla gente incontrata: chi non fosse riuscito ad esclamare la parola perfettamente, sarebbe stato molto probabilmente una persona di origine haitiana. Gli omicidi, nella maggior parte dei casi, avvennero con l’ausilio di armi bianche per dare l’impressione che le uccisioni fossero opera non dei militari, ma dei contadini domenicani. I corpi delle vittime furono gettati nel confine tra i due paesi, nel fiume Rio Masacre.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2020
QUELLA SCOSSA DEL
26 SETTEMBRE 1996
di Francesco Paladini
Il 26 settembre 1997, l’Italia fu colpita nella zona appenninica situata tra Marche e Umbria da un terremoto, la cui distruttività fece clamore in tutta Italia. La prima scossa avvenne alle 2.33 di notte, magnitudo 5.8, causò le prime due vittime della giornata e il crollo e danneggiamento dei primi edifici. La seconda scossa, di magnitudo 6.1, fu ricordata come la scossa che danneggiò il cuore dell’Italia. Le vittime furono 11 e i feriti 100, mentre gli edifici e abitazioni danneggiate furono 80000. Le strutture interessarono principalmente il patrimonio storico-culturale che il centro Italia vanta e ne è abbondante. I danni principali furono fatti alla basilica superiore di San Francesco d’Assisi: il crollo della volta della basilica divenne una delle immagini simbolo di questo terremoto, poiché ripresa in diretta dall’emittente locale Umbria TV. Altre strutture importanti danneggiate risultarono la cima del campanile della cattedrale di Foligno, la storica torre di Nocera Umbra, i numerosi musei e i vari teatri storici. La sequenza sismica iniziata la notte del 26 settembre proseguì per mesi, causando in totale un migliaio di altre scosse, una decina delle quali oltre la soglia del danno (magnitudo maggiore di 4.5). Le più gravi furono quelle del 3 e del 14 ottobre, entrambe superiori a magnitudo 5. Quella del 14 ottobre fu particolarmente grave e causò il crollo del torrino del palazzo comunale di Foligno, un edificio storico costruito tra il XVI e il XVII secolo. La ricostruzione dopo il terremoto è considerata oggi uno dei pochi modelli virtuosi di intervento dopo un sisma nel nostro paese. A 23 anni dal terremoto 22.337 persone, cioè il 99 per cento di quelle inizialmente evacuate, sono tornate ad abitare nelle loro case.
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2020
Il 26 settembre 1997, l’Italia fu colpita nella zona appenninica situata tra Marche e Umbria da un terremoto, la cui distruttività fece clamore in tutta Italia. La prima scossa avvenne alle 2.33 di notte, magnitudo 5.8, causò le prime due vittime della giornata e il crollo e danneggiamento dei primi edifici. La seconda scossa, di magnitudo 6.1, fu ricordata come la scossa che danneggiò il cuore dell’Italia. Le vittime furono 11 e i feriti 100, mentre gli edifici e abitazioni danneggiate furono 80000. Le strutture interessarono principalmente il patrimonio storico-culturale che il centro Italia vanta e ne è abbondante. I danni principali furono fatti alla basilica superiore di San Francesco d’Assisi: il crollo della volta della basilica divenne una delle immagini simbolo di questo terremoto, poiché ripresa in diretta dall’emittente locale Umbria TV. Altre strutture importanti danneggiate risultarono la cima del campanile della cattedrale di Foligno, la storica torre di Nocera Umbra, i numerosi musei e i vari teatri storici. La sequenza sismica iniziata la notte del 26 settembre proseguì per mesi, causando in totale un migliaio di altre scosse, una decina delle quali oltre la soglia del danno (magnitudo maggiore di 4.5). Le più gravi furono quelle del 3 e del 14 ottobre, entrambe superiori a magnitudo 5. Quella del 14 ottobre fu particolarmente grave e causò il crollo del torrino del palazzo comunale di Foligno, un edificio storico costruito tra il XVI e il XVII secolo. La ricostruzione dopo il terremoto è considerata oggi uno dei pochi modelli virtuosi di intervento dopo un sisma nel nostro paese. A 23 anni dal terremoto 22.337 persone, cioè il 99 per cento di quelle inizialmente evacuate, sono tornate ad abitare nelle loro case.
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2020
LUGLIO 2001: G8 SANGUINOLENTO
di Paolo Galignano
Il cantautore partenopeo Edoardo Bennato, in una sua nota canzone degli anni ’70, diceva: “per scuotere la gente non bastano i discorsi, ci vogliono le bombe”. Questi versi mi tornano in mente, ripensando ai tristi e sanguinosi fatti accaduti quasi vent’anni fa nel capoluogo ligure; correva l’anno 2001 e dal 19 al 22 luglio, i “Grandi” della Terra scelsero Genova, la città natale di Faber, per riunirsi nel G8, più dolorosamente rimasto alla storia. In quell’occasione, la riunione delle otto maggiori potenze economiche mondiali ebbe luogo in una blindatissima Genova, una città non adatta a contenere migliaia di manifestanti (in larghissima parte pacifici) provenienti da tutto il Mondo e non adatta a far gestire l’ordine pubblico, per la sua conformazione topografica. Per le migliaia di genovesi residenti nella zona rossa o nelle strade limitrofe furono giorni di “dittatura democratica”; le misure adottate furono grandissime, oltre alle limitazioni dei più elementari diritti civili: libertà di spostamento, libertà di godere dell’acqua corrente, libertà di usufruire di internet e cellulari. Ma ciò che rese quel G8 tristemente noto al mondo e alle aule giudiziarie, fu il fiume di sangue che invase le strade della città. Tre luoghi in particolare furono teatro di violenza e morte:
- La caserma Bolzaneto, dove centinaia di manifestanti, fermati durante gli scontri, subirono veri atti di tortura e trattamenti inumani;
- La scuola Diaz, luogo dove dimoravano tanti manifestanti, che fu teatro il 21 luglio di una irruzione della polizia, che si rivelò immotivata e tremendamente sanguinosa;
- Piazza Alimonda, dove il 20 luglio perse la vita il manifestante Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola del carabiniere Mario Placanica, che si trovava sull’automezzo preso d’assalto dai manifestanti e dallo stesso Giuliani, “armato” di estintore. Il carabiniere fu prosciolto, ma rimane il dolore per una giovane vita spezzata.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
Il cantautore partenopeo Edoardo Bennato, in una sua nota canzone degli anni ’70, diceva: “per scuotere la gente non bastano i discorsi, ci vogliono le bombe”. Questi versi mi tornano in mente, ripensando ai tristi e sanguinosi fatti accaduti quasi vent’anni fa nel capoluogo ligure; correva l’anno 2001 e dal 19 al 22 luglio, i “Grandi” della Terra scelsero Genova, la città natale di Faber, per riunirsi nel G8, più dolorosamente rimasto alla storia. In quell’occasione, la riunione delle otto maggiori potenze economiche mondiali ebbe luogo in una blindatissima Genova, una città non adatta a contenere migliaia di manifestanti (in larghissima parte pacifici) provenienti da tutto il Mondo e non adatta a far gestire l’ordine pubblico, per la sua conformazione topografica. Per le migliaia di genovesi residenti nella zona rossa o nelle strade limitrofe furono giorni di “dittatura democratica”; le misure adottate furono grandissime, oltre alle limitazioni dei più elementari diritti civili: libertà di spostamento, libertà di godere dell’acqua corrente, libertà di usufruire di internet e cellulari. Ma ciò che rese quel G8 tristemente noto al mondo e alle aule giudiziarie, fu il fiume di sangue che invase le strade della città. Tre luoghi in particolare furono teatro di violenza e morte:
- La caserma Bolzaneto, dove centinaia di manifestanti, fermati durante gli scontri, subirono veri atti di tortura e trattamenti inumani;
- La scuola Diaz, luogo dove dimoravano tanti manifestanti, che fu teatro il 21 luglio di una irruzione della polizia, che si rivelò immotivata e tremendamente sanguinosa;
- Piazza Alimonda, dove il 20 luglio perse la vita il manifestante Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola del carabiniere Mario Placanica, che si trovava sull’automezzo preso d’assalto dai manifestanti e dallo stesso Giuliani, “armato” di estintore. Il carabiniere fu prosciolto, ma rimane il dolore per una giovane vita spezzata.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
TABACCHINE DEL SALENTO
di Vanessa Paladini
L’attività tabacchicola salentina ha avuto un ruolo chiave all’interno del comparto produttivo. Le operaie chiamate “tabacchine” sono state una categoria altamente combattiva: uniche lavoratrici ad esprimere l’esasperazione di un sistema politico-agrario-economico, malsano e permeato dallo sfruttamento. La giornata lavorativa cominciava ogni mattina, alle 7 in punto e con il suono acuto di una sirena. Un minuto dopo tale ora, il portone d’ingresso alla fabbrica veniva chiuso e alle ritardatarie, alle quali non era minimamente concesso di giustificarsi, non rimaneva che tornare a casa. All’interno della sala di lavorazione ciascuna operaia svolgeva un compito preciso. Vi erano le “spulardatrici” addette a separare le foglie di tabacco; le “cernitrici” addette a dividere le foglie in base al tipo di appartenenza e al colore; le “spianatrici” che stendevano le foglie di tabacco e, una volta composte a mazzetti, le consegnavano alle “torchiatrici” per la confezione delle ballette. Le operazioni, supervisionate dalla “maestra”, ossia la dirigente della fabbrica, venivano svolte nel massimo silenzio. Il lavoro si interrompeva a mezzogiorno per riprendere un’ora dopo e concludersi alle h. 16.30. Il prolungamento del lavoro non veniva retribuito e spesso era alimentato da alcuni sotterfugi, ai quali si aggiungevano profonde carenze contrattuali e latitanza di legislazione previdenziale.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
L’attività tabacchicola salentina ha avuto un ruolo chiave all’interno del comparto produttivo. Le operaie chiamate “tabacchine” sono state una categoria altamente combattiva: uniche lavoratrici ad esprimere l’esasperazione di un sistema politico-agrario-economico, malsano e permeato dallo sfruttamento. La giornata lavorativa cominciava ogni mattina, alle 7 in punto e con il suono acuto di una sirena. Un minuto dopo tale ora, il portone d’ingresso alla fabbrica veniva chiuso e alle ritardatarie, alle quali non era minimamente concesso di giustificarsi, non rimaneva che tornare a casa. All’interno della sala di lavorazione ciascuna operaia svolgeva un compito preciso. Vi erano le “spulardatrici” addette a separare le foglie di tabacco; le “cernitrici” addette a dividere le foglie in base al tipo di appartenenza e al colore; le “spianatrici” che stendevano le foglie di tabacco e, una volta composte a mazzetti, le consegnavano alle “torchiatrici” per la confezione delle ballette. Le operazioni, supervisionate dalla “maestra”, ossia la dirigente della fabbrica, venivano svolte nel massimo silenzio. Il lavoro si interrompeva a mezzogiorno per riprendere un’ora dopo e concludersi alle h. 16.30. Il prolungamento del lavoro non veniva retribuito e spesso era alimentato da alcuni sotterfugi, ai quali si aggiungevano profonde carenze contrattuali e latitanza di legislazione previdenziale.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
DALLA MONARCHIA
ALLA REPUBBLICA
di Paolo Galignano
Ogni popolo, ogni nazione ha una sua genesi e, con essa, le proprie date storiche, che hanno contribuito alla nascita e alla trasformazione di una tale nazione. Anche la nostra amata patria, l’Italia, ha le sue date fondamentali, che ci ricordano e ci rimandano agli eventi che hanno partorito l’Italia e l’hanno fatta crescere, fino alla sua attuale dimensione socio-politica. Fondamentali sono le date delle guerre d’Indipendenza, i tre conflitti bellici che hanno dato il via alla nascita dello Stato Italiano, sotto il governo monarchico dei Savoia, nella seconda metà del XIX secolo. Circa ottanta anni dopo, il 2 giugno del 1946 segna un epocale cambiamento sociopolitico: il passaggio dello Stato Italiano da monarchia a repubblica. Questo enorme cambiamento della natura politica dell’Italia avvenne attraverso un referendum popolare, che vide, per la prima volta in Italia, anche le donne al voto. Quasi il 90% degli aventi diritto al voto si presentarono alle urne in quei due giorni (2 e 3 giugno). I voti a favore della Repubblica, in un clima politico acceso e cruento, furono il 54,3%; a favore della monarchia il 45,7%; delle 31 circoscrizioni, quella più favorevole alla repubblica fu Trento, con l’85% di voti repubblicani, seguita a poca distanza numerica da Bologna; meno favorevole al cambiamento fu, in generale, tutto il Meridione. Quel giorno si votò anche per eleggere i futuri componenti della nascente Assemblea Costituente, che ebbe il compito di redigere la nostra Costituzione, poi emanata il primo gennaio del 1948; ma, come direbbe lo scrittore Carlo Lucarelli, questa è un’altra storia.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
Ogni popolo, ogni nazione ha una sua genesi e, con essa, le proprie date storiche, che hanno contribuito alla nascita e alla trasformazione di una tale nazione. Anche la nostra amata patria, l’Italia, ha le sue date fondamentali, che ci ricordano e ci rimandano agli eventi che hanno partorito l’Italia e l’hanno fatta crescere, fino alla sua attuale dimensione socio-politica. Fondamentali sono le date delle guerre d’Indipendenza, i tre conflitti bellici che hanno dato il via alla nascita dello Stato Italiano, sotto il governo monarchico dei Savoia, nella seconda metà del XIX secolo. Circa ottanta anni dopo, il 2 giugno del 1946 segna un epocale cambiamento sociopolitico: il passaggio dello Stato Italiano da monarchia a repubblica. Questo enorme cambiamento della natura politica dell’Italia avvenne attraverso un referendum popolare, che vide, per la prima volta in Italia, anche le donne al voto. Quasi il 90% degli aventi diritto al voto si presentarono alle urne in quei due giorni (2 e 3 giugno). I voti a favore della Repubblica, in un clima politico acceso e cruento, furono il 54,3%; a favore della monarchia il 45,7%; delle 31 circoscrizioni, quella più favorevole alla repubblica fu Trento, con l’85% di voti repubblicani, seguita a poca distanza numerica da Bologna; meno favorevole al cambiamento fu, in generale, tutto il Meridione. Quel giorno si votò anche per eleggere i futuri componenti della nascente Assemblea Costituente, che ebbe il compito di redigere la nostra Costituzione, poi emanata il primo gennaio del 1948; ma, come direbbe lo scrittore Carlo Lucarelli, questa è un’altra storia.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
AUTONOMIA CESARINA:
DAL 1962 AL 1975
di Vanessa Paladini
La battaglia di Porto Cesareo cominciò nel 1962 ma il punto centrale della sfida si delineò solo l’anno dopo, quando attraverso la nomina dei componenti del Comitato, capeggiato da Raffaele Sambati, fu segnato l’inizio ufficiale del percorso che avrebbe portato all’autonomia. Proseguendo con tale obiettivo il comitato sviluppò un’azione di coinvolgimento dei parlamentari di tutti i partiti politici, eletti nel 1963, non risparmiando di predisporre documenti, manifesti per i residenti e lettere rivolte alle autorità. Nel giugno 1963 fu inoltre inviata una petizione al Ministero dell’Interno affinché l’iter autonomistico fosse accelerato. A cozzare con gli elementi indispensabili per ottenere l’autonomia c’era, però, il numero limitato degli abitanti della frazione. Nonostante ciò si perseguì l’attività promozionale del territorio, non solo attraverso la storica «Sagra del pesce», ma anche ottenendo alcune conquiste come la realizzazione di opere urbane, la bitumazione delle strade e il ripensamento della rete paesaggistica che doveva collegare Porto Cesareo a Punta Prosciutto. Già nei primi anni ‘70, si respirava aria di autonomia e, infatti, a venire approvata il 22 aprile del 1972 fu la legge istitutiva del Comune di Porto Cesareo con l’esultanza di tutti i cittadini tra i quali primeggiavano Sambati, Durante e Campanelli. Il 16 Maggio 1975, fu emanata una legge regionale pubblicata poi sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia in cui Porto Cesareo era «comune autonomo» che «(…) noi di Porto Cesareo volemmo per aprirci meglio al nostro mare fonte di vita e di perigli, e per sentirci più stretti all’ubertosa terra, madre di messi e di ulivi».
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
La battaglia di Porto Cesareo cominciò nel 1962 ma il punto centrale della sfida si delineò solo l’anno dopo, quando attraverso la nomina dei componenti del Comitato, capeggiato da Raffaele Sambati, fu segnato l’inizio ufficiale del percorso che avrebbe portato all’autonomia. Proseguendo con tale obiettivo il comitato sviluppò un’azione di coinvolgimento dei parlamentari di tutti i partiti politici, eletti nel 1963, non risparmiando di predisporre documenti, manifesti per i residenti e lettere rivolte alle autorità. Nel giugno 1963 fu inoltre inviata una petizione al Ministero dell’Interno affinché l’iter autonomistico fosse accelerato. A cozzare con gli elementi indispensabili per ottenere l’autonomia c’era, però, il numero limitato degli abitanti della frazione. Nonostante ciò si perseguì l’attività promozionale del territorio, non solo attraverso la storica «Sagra del pesce», ma anche ottenendo alcune conquiste come la realizzazione di opere urbane, la bitumazione delle strade e il ripensamento della rete paesaggistica che doveva collegare Porto Cesareo a Punta Prosciutto. Già nei primi anni ‘70, si respirava aria di autonomia e, infatti, a venire approvata il 22 aprile del 1972 fu la legge istitutiva del Comune di Porto Cesareo con l’esultanza di tutti i cittadini tra i quali primeggiavano Sambati, Durante e Campanelli. Il 16 Maggio 1975, fu emanata una legge regionale pubblicata poi sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia in cui Porto Cesareo era «comune autonomo» che «(…) noi di Porto Cesareo volemmo per aprirci meglio al nostro mare fonte di vita e di perigli, e per sentirci più stretti all’ubertosa terra, madre di messi e di ulivi».
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
CINQUE MAGGIO: STORIA E POESIA
di Paolo Galignano
La Storia e la Poesia, con le iniziali maiuscole, si fondono magistralmente nel componimento poetico del “padre” dei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni: il cinque maggio. Colpito dalla morte di Napoleone Bonaparte, Manzoni compose in soli tre giorni questa ode all’imperatore di Francia, morto il 5 maggio 1821. Non esaminerò l’intero carme, ma, attraverso alcuni versi, parlerò della vita e della morte del personaggio storico più importante del diciannovesimo secolo: Napoleone Bonaparte.
“Ei fu. Siccome immobile dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta”. Dalla prima strofa si comprende l’importanza storica di Napoleone e di come la sua vita militare e politica abbia influito sul corso della Storia: le guerre napoleoniche rappresentarono una frattura degli equilibri geopolitici europei; equilibri ripristinati con il Congresso di Vienna del 1815, che dette il via alla cosiddetta Restaurazione.
“Dall’Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall’uno all’altro mar”. Questa strofa glorifica le grandi imprese e conquiste di Napoleone, che creò un impero da far invidia e spavento agli altri grandi imperi e potenze europee: l’impero Asburgico (Austria-Ungheria), il Regno Unito, la Prussia e la Russia degli zar.
“Due volte nella polvere, due volte sull’altar”. Concludo con questi due versi. La prima volta “nella polvere” fu dopo la disastrosa campagna di Russia del 1812 e la sconfitta nella battaglia di Lipsia l’anno dopo, che lo portò al suo primo esilio sull’isola di Sant’Elba nel 1814; la seconda volta fu la battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815 e il definitivo esilio sull’isola di Sant’Elena. La prima volta “sull’altar” fu la sua incoronazione a imperatore di Francia il 2 dicembre 1804; la sua seconda volta furono i famosi cento giorni, intercorsi dalla sua fuga da Sant’Elba alla sua definitiva sconfitta.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2020
La Storia e la Poesia, con le iniziali maiuscole, si fondono magistralmente nel componimento poetico del “padre” dei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni: il cinque maggio. Colpito dalla morte di Napoleone Bonaparte, Manzoni compose in soli tre giorni questa ode all’imperatore di Francia, morto il 5 maggio 1821. Non esaminerò l’intero carme, ma, attraverso alcuni versi, parlerò della vita e della morte del personaggio storico più importante del diciannovesimo secolo: Napoleone Bonaparte.
“Ei fu. Siccome immobile dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta”. Dalla prima strofa si comprende l’importanza storica di Napoleone e di come la sua vita militare e politica abbia influito sul corso della Storia: le guerre napoleoniche rappresentarono una frattura degli equilibri geopolitici europei; equilibri ripristinati con il Congresso di Vienna del 1815, che dette il via alla cosiddetta Restaurazione.
“Dall’Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall’uno all’altro mar”. Questa strofa glorifica le grandi imprese e conquiste di Napoleone, che creò un impero da far invidia e spavento agli altri grandi imperi e potenze europee: l’impero Asburgico (Austria-Ungheria), il Regno Unito, la Prussia e la Russia degli zar.
“Due volte nella polvere, due volte sull’altar”. Concludo con questi due versi. La prima volta “nella polvere” fu dopo la disastrosa campagna di Russia del 1812 e la sconfitta nella battaglia di Lipsia l’anno dopo, che lo portò al suo primo esilio sull’isola di Sant’Elba nel 1814; la seconda volta fu la battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815 e il definitivo esilio sull’isola di Sant’Elena. La prima volta “sull’altar” fu la sua incoronazione a imperatore di Francia il 2 dicembre 1804; la sua seconda volta furono i famosi cento giorni, intercorsi dalla sua fuga da Sant’Elba alla sua definitiva sconfitta.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2020
LA PESTE DEL MANZONI
di Giuseppe Gorbelli
L’epidemia di peste che colpì Verona nel 1630 fu la stessa che colpì tutte le principali città europee, compresa la vicina Milano. La vicenda della peste a Milano è narrata dal Manzoni nel XXXI capitolo de “I Promessi Sposi” e in un saggio storico “Storia della colonna infame”, originariamente parte della stessa opera e poi pubblicato autonomamente nel 1840. L’approccio dello storico Manzoni alla vicenda della peste è stato da molti, compreso il noto filosofo Benedetto Croce, definito moralista. In effetti in Manzoni esiste l’attitudine ad analizzare il comportamento del popolo e dei protagonisti delle vicende. La storia infatti è per Manzoni prima di tutto un mezzo per educare l’allora nascente stato italiano. Il capitolo narra come a Milano, all’inizio del contagio, non si credesse che quella fosse una vera e propria epidemia di peste; le autorità cittadine la definirono infatti come una comune “febbre pestilenziale”. L’epidemia era giunta a Milano portata da una truppa di Lanzichenecchi, terribili mercenari austriaci, che, assoldati dalla Repubblica di Venezia, si stavano dirigendo a Mantova dove era in corso la guerra per la sua conquista. Fu così che la peste si diffuse ben presto nella città: al contagio era sufficiente infatti il contatto con l’abito di un malato. Vista la facilità con la quale la peste si trasmetteva, risultarono insufficienti le misure adottate dalle autorità cittadine per contrastarla. A loro si rivolge parte dell’aspra critica del Manzoni. Anche la Chiesa contribuì a modo suo alla diffusione del contagio, organizzando delle processioni che avevano lo scopo di chiedere la grazia per la città, ma che di fatto favorirono l’ammassarsi di sani e malati nello stesso luogo. Manzoni è impietoso anche nei confronti delle credenze popolari ed in particolar modo di quella superstizione, che voleva alcuni uomini detti “untori” occuparsi di ungere con olio infetto gli stipiti delle case per farne ammalare gli abitanti. Moltissimi furono i casi di persecuzioni: ad esempio Guglielmo Piazza (commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (barbiere).
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
L’epidemia di peste che colpì Verona nel 1630 fu la stessa che colpì tutte le principali città europee, compresa la vicina Milano. La vicenda della peste a Milano è narrata dal Manzoni nel XXXI capitolo de “I Promessi Sposi” e in un saggio storico “Storia della colonna infame”, originariamente parte della stessa opera e poi pubblicato autonomamente nel 1840. L’approccio dello storico Manzoni alla vicenda della peste è stato da molti, compreso il noto filosofo Benedetto Croce, definito moralista. In effetti in Manzoni esiste l’attitudine ad analizzare il comportamento del popolo e dei protagonisti delle vicende. La storia infatti è per Manzoni prima di tutto un mezzo per educare l’allora nascente stato italiano. Il capitolo narra come a Milano, all’inizio del contagio, non si credesse che quella fosse una vera e propria epidemia di peste; le autorità cittadine la definirono infatti come una comune “febbre pestilenziale”. L’epidemia era giunta a Milano portata da una truppa di Lanzichenecchi, terribili mercenari austriaci, che, assoldati dalla Repubblica di Venezia, si stavano dirigendo a Mantova dove era in corso la guerra per la sua conquista. Fu così che la peste si diffuse ben presto nella città: al contagio era sufficiente infatti il contatto con l’abito di un malato. Vista la facilità con la quale la peste si trasmetteva, risultarono insufficienti le misure adottate dalle autorità cittadine per contrastarla. A loro si rivolge parte dell’aspra critica del Manzoni. Anche la Chiesa contribuì a modo suo alla diffusione del contagio, organizzando delle processioni che avevano lo scopo di chiedere la grazia per la città, ma che di fatto favorirono l’ammassarsi di sani e malati nello stesso luogo. Manzoni è impietoso anche nei confronti delle credenze popolari ed in particolar modo di quella superstizione, che voleva alcuni uomini detti “untori” occuparsi di ungere con olio infetto gli stipiti delle case per farne ammalare gli abitanti. Moltissimi furono i casi di persecuzioni: ad esempio Guglielmo Piazza (commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (barbiere).
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
ALT ANCHE ALLA MESSA
di Alessio Peluso
Coinvolge anche il mondo cattolico l’emergenza da Corona – Virus. È una decisione non facile, ma risulta un atto di responsabilità nei confronti dei fedeli. Già nella mattinata dell’8 marzo Papa Francesco aveva rinunciato alla consueta celebrazione domenicale e all’Angelus, che raccoglie migliaia di persone. In serata arriva invece il documento ufficiale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), che prende atto della delicata situazione, procedendo alla sospensione sull’intero territorio nazionale delle cerimonie religiose, civili e funebri. Una presa di posizione condivisibile, che porterà i fedeli a cambiare le loro abitudini. In molte comunità, come quella cesarina, ci si adopera attraverso lo streaming: ogni giorno a partire dalle 18,30 Santo Rosario e poi Santa Messa, visibili sulla pagina Facebook di Coro Misericordia Porto Cesareo. A livello nazionale TV 2000, canale 28 del digitale terrestre, offre varie opportunità: alle ore 7,00 diretta per la messa di Papa Francesco dalla cappella di Santa Marta; altre possibilità saranno offerte alle 8,30 e alle 19,00. Altri orari interessanti risultano la recita della Divina Misericordia alle 15,00 e il rosario in diretta da Lourdes alle 18,00. Cosa succede invece nella nostra comunità cesarina? Lo stop preventivo per i tanti incontri comunitari di Azione Cattolica era stato già lanciato dal Presidente Alessio Greco in data 3 marzo, mentre Biblioteca Alberti ha diramato il comunicato di sospensione la mattina del 9 marzo. Di conseguenza stop agli incontri Scout e alla preghiera del lunedì del Rinnovamento dello Spirito. Salta altresì la visita pastorale del vescovo Filograna, prevista tra il 26 e il 29 marzo; rinviate a data da destinarsi anche le cresime di tutti i nostri ragazzi. In uno scenario così difficile, confortante il messaggio diramato da Papa Francesco:” Stasera prima di addormentarvi pensate a quando torneremo in strada. A quando ci abbracceremo di nuovo, a quando fare la spesa tutti insieme ci sembrerà una festa. Pensiamo a quando torneranno i caffè al bar, le chiacchiere, le foto stretti uno all’altro. Pensiamo a quando sarà tutto un ricordo, ma la normalità ci sembrerà un regalo inaspettato e bellissimo. Ameremo tutto quello che fino ad oggi ci è sembrato futile. Ogni secondo sarà prezioso. Le nuotate al mare, il sole fino a tardi, i tramonti, i brindisi, le risate. Torneremo a ridere insieme. Forza e coraggio. Ci vediamo presto! Papa Francesco.”
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
Coinvolge anche il mondo cattolico l’emergenza da Corona – Virus. È una decisione non facile, ma risulta un atto di responsabilità nei confronti dei fedeli. Già nella mattinata dell’8 marzo Papa Francesco aveva rinunciato alla consueta celebrazione domenicale e all’Angelus, che raccoglie migliaia di persone. In serata arriva invece il documento ufficiale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), che prende atto della delicata situazione, procedendo alla sospensione sull’intero territorio nazionale delle cerimonie religiose, civili e funebri. Una presa di posizione condivisibile, che porterà i fedeli a cambiare le loro abitudini. In molte comunità, come quella cesarina, ci si adopera attraverso lo streaming: ogni giorno a partire dalle 18,30 Santo Rosario e poi Santa Messa, visibili sulla pagina Facebook di Coro Misericordia Porto Cesareo. A livello nazionale TV 2000, canale 28 del digitale terrestre, offre varie opportunità: alle ore 7,00 diretta per la messa di Papa Francesco dalla cappella di Santa Marta; altre possibilità saranno offerte alle 8,30 e alle 19,00. Altri orari interessanti risultano la recita della Divina Misericordia alle 15,00 e il rosario in diretta da Lourdes alle 18,00. Cosa succede invece nella nostra comunità cesarina? Lo stop preventivo per i tanti incontri comunitari di Azione Cattolica era stato già lanciato dal Presidente Alessio Greco in data 3 marzo, mentre Biblioteca Alberti ha diramato il comunicato di sospensione la mattina del 9 marzo. Di conseguenza stop agli incontri Scout e alla preghiera del lunedì del Rinnovamento dello Spirito. Salta altresì la visita pastorale del vescovo Filograna, prevista tra il 26 e il 29 marzo; rinviate a data da destinarsi anche le cresime di tutti i nostri ragazzi. In uno scenario così difficile, confortante il messaggio diramato da Papa Francesco:” Stasera prima di addormentarvi pensate a quando torneremo in strada. A quando ci abbracceremo di nuovo, a quando fare la spesa tutti insieme ci sembrerà una festa. Pensiamo a quando torneranno i caffè al bar, le chiacchiere, le foto stretti uno all’altro. Pensiamo a quando sarà tutto un ricordo, ma la normalità ci sembrerà un regalo inaspettato e bellissimo. Ameremo tutto quello che fino ad oggi ci è sembrato futile. Ogni secondo sarà prezioso. Le nuotate al mare, il sole fino a tardi, i tramonti, i brindisi, le risate. Torneremo a ridere insieme. Forza e coraggio. Ci vediamo presto! Papa Francesco.”
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
STOP GLOBALE!
di Alessio Peluso
È il 9 marzo 2020. Molti di noi sono in casa, così come ci è stato raccomandato. Si attende con particolare patos il nuovo decreto straordinario, con tutte le nuove indicazioni da parte del Presidente del Consiglio Conte. Si realizza quello che era trapelato nelle ultime indiscrezioni e che trova conferma nelle sue parole: “I numeri ci dicono che stiamo avendo una crescita importante dei contagi, delle persone ricoverate in terapia intensiva e sub intensiva e dei deceduti. Le nostre abitudini, quindi, vanno cambiate ora. Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell’Italia. Lo dobbiamo fare subito. E ci riusciremo solo se tutti collaboreremo e ci adatteremo a queste norme più stringenti. Un provvedimento che possiamo sintetizzare con l’espressione io resto a casa!” L’annuncio del Premier certifica che l’Italia è ufficialmente zona rossa e che lo stato di emergenza è globale. Ovviamente valgono le raccomandazioni che più volte gli esperti ci hanno fornito: in primis uscire solo per motivi importanti quali lavoro o salute, ma soprattutto evitare gli assemblamenti di persone. Ognuno sarà chiamato a un maggior senso di responsabilità verso sé stesso e verso gli altri. Per cui per un po’ saremo costretti a rinunciare alle nostre abitudini: bere un caffè in larga compagnia, organizzare mega aperitivi, andare al cinema, partecipare a concerti, eventi teatrali o giocare a calcetto. In alternativa potremo riscoprire il piacere dello stare in famiglia, i genitori più liberi dal lavoro potranno dedicare più tempo ai loro figli, rivedere vecchi dvd delle più famose serie tv, leggere un buon libro e magari tornare a scrivere una poesia, un racconto o una favola a lieto fine. E questo ce lo auguriamo veramente tutti.
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
È il 9 marzo 2020. Molti di noi sono in casa, così come ci è stato raccomandato. Si attende con particolare patos il nuovo decreto straordinario, con tutte le nuove indicazioni da parte del Presidente del Consiglio Conte. Si realizza quello che era trapelato nelle ultime indiscrezioni e che trova conferma nelle sue parole: “I numeri ci dicono che stiamo avendo una crescita importante dei contagi, delle persone ricoverate in terapia intensiva e sub intensiva e dei deceduti. Le nostre abitudini, quindi, vanno cambiate ora. Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell’Italia. Lo dobbiamo fare subito. E ci riusciremo solo se tutti collaboreremo e ci adatteremo a queste norme più stringenti. Un provvedimento che possiamo sintetizzare con l’espressione io resto a casa!” L’annuncio del Premier certifica che l’Italia è ufficialmente zona rossa e che lo stato di emergenza è globale. Ovviamente valgono le raccomandazioni che più volte gli esperti ci hanno fornito: in primis uscire solo per motivi importanti quali lavoro o salute, ma soprattutto evitare gli assemblamenti di persone. Ognuno sarà chiamato a un maggior senso di responsabilità verso sé stesso e verso gli altri. Per cui per un po’ saremo costretti a rinunciare alle nostre abitudini: bere un caffè in larga compagnia, organizzare mega aperitivi, andare al cinema, partecipare a concerti, eventi teatrali o giocare a calcetto. In alternativa potremo riscoprire il piacere dello stare in famiglia, i genitori più liberi dal lavoro potranno dedicare più tempo ai loro figli, rivedere vecchi dvd delle più famose serie tv, leggere un buon libro e magari tornare a scrivere una poesia, un racconto o una favola a lieto fine. E questo ce lo auguriamo veramente tutti.
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
LE CINQUE GIORNATE DI MILANO
di Giuseppe Gorbelli
Fu una delle poche rivolte riuscite in Italia. Correva l’anno 1848, quello delle grandi rivolte di popolo, e Milano, tra il 18 e il 22 marzo, dava vita alla più celebre rivolta della sua storia, le Cinque Giornate, costringendo il feldmaresciallo Radetzky, comandante delle truppe occupanti dell’Impero asburgico, a prendere atto della volontà di un popolo pronto a dire basta ad anni di soprusi e ingiustizie. Il 10 dicembre del 1846 era morto Federico Confalonieri, grande patriota milanese. Al funerale partecipò una folla tale da preoccupare la polizia austriaca. La sera stessa, nessun milanese si recò alla Scala, uno sciopero silenzioso che si sarebbe d’ora in poi ripetuto ogni volta che la protagonista dell’opera fosse stata impersonata da una cantante austriaca. Ma l’episodio più significativo fu quello del primo gennaio 1848, quando i milanesi attuarono il celebre «sciopero del tabacco»: promosso da Giovanni Cantoni, ebbe come slogan il fatto che fumando (e giocando) ogni milanese avrebbe contribuito all’aumento delle finanze austriache. Lo sciopero proseguì per due giorni, ma il 3 gennaio un decreto imperiale minacciò gravi punizioni per chi avesse proibito ad alcuno di fumare. Nel pomeriggio i soldati, incitati da un falso volantino irrisorio nei loro confronti, si diedero ad atti di violenza contro i civili, provocando numerosi morti. L’odio nei milanesi verso il governo austriaco montò all’inverosimile. Milano e la Lombardia vivevano in un clima di terrore, ma l’ardore covava sotto le ceneri. La sera del 17 marzo giunse in città la notizia di un’insurrezione a Vienna: era il pretesto che tutti attendevano per dar vita alla rivolta, che scoppiò il 18 marzo 1848. La popolazione insorse, occupando il Palazzo del Governatore e alzando barricate per strada contro l'esercito austriaco comandato dal generale Josef Radetzky. La tenace resistenza degli insorti sorprese quest'ultimo, costretto ad ordinare il ritiro delle truppe nel Quadrilatero. Il 22 marzo Milano venne liberata e affidata a un Governo provvisorio, guidato da Gabrio Casati, e a un Consiglio di guerra, con a capo Carlo Cattaneo. La contemporanea rivolta di Venezia, dove fu proclamata la Repubblica, fornì al re sabaudo Carlo Alberto il pretesto per dare inizio alla Prima Guerra d'Indipendenza (23 marzo 1848 - 24 marzo 1849).
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
Fu una delle poche rivolte riuscite in Italia. Correva l’anno 1848, quello delle grandi rivolte di popolo, e Milano, tra il 18 e il 22 marzo, dava vita alla più celebre rivolta della sua storia, le Cinque Giornate, costringendo il feldmaresciallo Radetzky, comandante delle truppe occupanti dell’Impero asburgico, a prendere atto della volontà di un popolo pronto a dire basta ad anni di soprusi e ingiustizie. Il 10 dicembre del 1846 era morto Federico Confalonieri, grande patriota milanese. Al funerale partecipò una folla tale da preoccupare la polizia austriaca. La sera stessa, nessun milanese si recò alla Scala, uno sciopero silenzioso che si sarebbe d’ora in poi ripetuto ogni volta che la protagonista dell’opera fosse stata impersonata da una cantante austriaca. Ma l’episodio più significativo fu quello del primo gennaio 1848, quando i milanesi attuarono il celebre «sciopero del tabacco»: promosso da Giovanni Cantoni, ebbe come slogan il fatto che fumando (e giocando) ogni milanese avrebbe contribuito all’aumento delle finanze austriache. Lo sciopero proseguì per due giorni, ma il 3 gennaio un decreto imperiale minacciò gravi punizioni per chi avesse proibito ad alcuno di fumare. Nel pomeriggio i soldati, incitati da un falso volantino irrisorio nei loro confronti, si diedero ad atti di violenza contro i civili, provocando numerosi morti. L’odio nei milanesi verso il governo austriaco montò all’inverosimile. Milano e la Lombardia vivevano in un clima di terrore, ma l’ardore covava sotto le ceneri. La sera del 17 marzo giunse in città la notizia di un’insurrezione a Vienna: era il pretesto che tutti attendevano per dar vita alla rivolta, che scoppiò il 18 marzo 1848. La popolazione insorse, occupando il Palazzo del Governatore e alzando barricate per strada contro l'esercito austriaco comandato dal generale Josef Radetzky. La tenace resistenza degli insorti sorprese quest'ultimo, costretto ad ordinare il ritiro delle truppe nel Quadrilatero. Il 22 marzo Milano venne liberata e affidata a un Governo provvisorio, guidato da Gabrio Casati, e a un Consiglio di guerra, con a capo Carlo Cattaneo. La contemporanea rivolta di Venezia, dove fu proclamata la Repubblica, fornì al re sabaudo Carlo Alberto il pretesto per dare inizio alla Prima Guerra d'Indipendenza (23 marzo 1848 - 24 marzo 1849).
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
FESTA DELLA DONNA
di Paolo Galignano
Ogni anno, in Italia e nel mondo, si celebra la Giornata Internazionale della Donna, da noi meglio conosciuta come la Festa della Donna. In Italia si celebra l’8 marzo, per la prima volta sul tutto il territorio italiano, dal 1946. Fu un’iniziativa dell’UDI (Unione Donne in Italia), nata, nel secondo dopoguerra, da militanti di vari partiti, quali il PCI, il PSI, il Partito d’Azione, La Sinistra Cristiana; fu allora che fu scelto anche il simbolo di tale ricorrenza: la mimosa. Si pensò a tale fiore perché facile da reperire (fiorisce appunto in questo periodo dell’anno) e molto economico; e poi il colore giallo ha diverse valenze simboliche. Furono Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei a pensare a questo fiore. Nel mondo, invece, la prima Giornata Internazionale della Donna si fa risalire al 28 febbraio 1909, negli Stati Uniti, dove il Partito Socialista americano pensò a una giornata commemorativa delle lotte sindacali femminili e in memoria dello sciopero delle camicie newyorkesi che nel 1908 avevano rivendicato migliori condizioni lavorative. Purtroppo, la forte connotazione politica di tale giornata, la strumentalizzazione di tale festa, operata da varie parti, contribuirono a far perdere le tracce delle reali origini di questa importante ricorrenza. E, soprattutto nel secondo dopoguerra, iniziò a circolare tanta disinformazione al riguardo della nascita centenaria di tale giornata; e ancor oggi molte persone credono che tutto ebbe inizio per commemorare un incendio (nel quale sarebbero morte centinaia di donne lavoratrici) in una inesistente fabbrica di camicie, che sarebbe avvenuto a New York nel 1908; falso storico che probabilmente fa confusione con una tragedia realmente accaduta a New York il 25 marzo 1911: il rogo della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori, (123 donne e anche 23 uomini) gran parte giovani immigrate di origine italiana ed ebraica.
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
Ogni anno, in Italia e nel mondo, si celebra la Giornata Internazionale della Donna, da noi meglio conosciuta come la Festa della Donna. In Italia si celebra l’8 marzo, per la prima volta sul tutto il territorio italiano, dal 1946. Fu un’iniziativa dell’UDI (Unione Donne in Italia), nata, nel secondo dopoguerra, da militanti di vari partiti, quali il PCI, il PSI, il Partito d’Azione, La Sinistra Cristiana; fu allora che fu scelto anche il simbolo di tale ricorrenza: la mimosa. Si pensò a tale fiore perché facile da reperire (fiorisce appunto in questo periodo dell’anno) e molto economico; e poi il colore giallo ha diverse valenze simboliche. Furono Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei a pensare a questo fiore. Nel mondo, invece, la prima Giornata Internazionale della Donna si fa risalire al 28 febbraio 1909, negli Stati Uniti, dove il Partito Socialista americano pensò a una giornata commemorativa delle lotte sindacali femminili e in memoria dello sciopero delle camicie newyorkesi che nel 1908 avevano rivendicato migliori condizioni lavorative. Purtroppo, la forte connotazione politica di tale giornata, la strumentalizzazione di tale festa, operata da varie parti, contribuirono a far perdere le tracce delle reali origini di questa importante ricorrenza. E, soprattutto nel secondo dopoguerra, iniziò a circolare tanta disinformazione al riguardo della nascita centenaria di tale giornata; e ancor oggi molte persone credono che tutto ebbe inizio per commemorare un incendio (nel quale sarebbero morte centinaia di donne lavoratrici) in una inesistente fabbrica di camicie, che sarebbe avvenuto a New York nel 1908; falso storico che probabilmente fa confusione con una tragedia realmente accaduta a New York il 25 marzo 1911: il rogo della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori, (123 donne e anche 23 uomini) gran parte giovani immigrate di origine italiana ed ebraica.
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
GIORNO DEL RICORDO:
MASSACRO DELLE FOIBE
di Paolo Galignano
La Seconda Guerra Mondiale comportò, sul finire della guerra, una sorta di guerra civile che si sviluppò in tutto il territorio nazionale italiano e anche al confine con i Balcani. Guerra civile tra fascisti e partigiani, ma anche nel Friuli Venezia Giulia, un cruento e doloroso conflitto di confine tra patrioti e nazionalisti italiani da una parte e comunisti jugoslavi dall’altra; il tutto al fine di rivendicare il governo e il possesso di quella striscia di terra che era il confine con gli slavi di Tito. Questo conflitto iniziò nel settembre 1943 e terminò con i Trattati di Pace di Parigi, del 10 febbraio 1947, che assegnavano alla Jugoslavia l'Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell'Italia. La crudeltà di questo conflitto bellico è tristemente rappresentata dal massacro delle foibe: eccidi di massa, di militari e di civili, in prevalenza autoctoni della Venezia Giulia, da parte dei comunisti jugoslavi di Tito; e i corpi dei fucilati vennero gettati in queste strette e profondissime gole carsiche (chiamate “foibe”), in alcuni casi ancora vivi. Sebbene quest'ultima modalità di esecuzione fosse solo uno dei modi con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito (la maggior parte morì nei campi di concentramento jugoslavi), le foibe divennero il simbolo del massacro. Con la legge n° 92 del 30 marzo 2004, fu istituito il Giorno del Ricordo delle Foibe. Fu stabilito che la data fosse il 10 febbraio, in riferimento ai Trattati di Pace di Parigi del 1947. In questo giorno, si vuole «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2020
La Seconda Guerra Mondiale comportò, sul finire della guerra, una sorta di guerra civile che si sviluppò in tutto il territorio nazionale italiano e anche al confine con i Balcani. Guerra civile tra fascisti e partigiani, ma anche nel Friuli Venezia Giulia, un cruento e doloroso conflitto di confine tra patrioti e nazionalisti italiani da una parte e comunisti jugoslavi dall’altra; il tutto al fine di rivendicare il governo e il possesso di quella striscia di terra che era il confine con gli slavi di Tito. Questo conflitto iniziò nel settembre 1943 e terminò con i Trattati di Pace di Parigi, del 10 febbraio 1947, che assegnavano alla Jugoslavia l'Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell'Italia. La crudeltà di questo conflitto bellico è tristemente rappresentata dal massacro delle foibe: eccidi di massa, di militari e di civili, in prevalenza autoctoni della Venezia Giulia, da parte dei comunisti jugoslavi di Tito; e i corpi dei fucilati vennero gettati in queste strette e profondissime gole carsiche (chiamate “foibe”), in alcuni casi ancora vivi. Sebbene quest'ultima modalità di esecuzione fosse solo uno dei modi con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito (la maggior parte morì nei campi di concentramento jugoslavi), le foibe divennero il simbolo del massacro. Con la legge n° 92 del 30 marzo 2004, fu istituito il Giorno del Ricordo delle Foibe. Fu stabilito che la data fosse il 10 febbraio, in riferimento ai Trattati di Pace di Parigi del 1947. In questo giorno, si vuole «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2020
L'OLOCAUSTO
di Paolo Galignano
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno, dal 2006, per commemorare le vittime dell’Olocausto. All’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, durante una riunione plenaria del 1° novembre 2005, si è decisa questa data per ricordare il 27 gennaio 1945, giorno in cui l’Armata Rossa sovietica liberò il campo di concentramento di Auschwitz. Il Giorno della Memoria, in Italia, fu formalmente istituito con qualche anno di anticipo rispetto alla risoluzione dell’ONU, ma prima di giungere alla data del 27 gennaio (universalmente riconosciuta come Giornata della Memoria), ci fu un ampio e acceso dibattito politico; e le opzioni alternative alla data finale furono due: una data che rimarcasse gli orrori delle leggi razziali italiane emanate dal 1938 fino alla fine della guerra; una data che mettesse l’accento sulle deportazioni politiche e quindi sulle persecuzioni subite da italiani cattolici, ma oppositori del regime fascista. Nel primo caso, su proposta del deputato Furio Colombo, si pensò al 16 ottobre, per ricordare il grande rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto in quel giorno nel 1943; nel secondo caso si pensò al 5 maggio, anniversario della liberazione di Mauthausen, usato in larga parte per i deportati politici. La Giornata della Memoria non è solamente una data, ma anche uno spunto per dibattiti e seminari sugli orrori dell’Olocausto. Voglio citare l’iniziativa, nel 2010, dell’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale” e del Centro di Studi Ebraici, che organizzarono una serie di giornate di studio sulle leggi razziali, presso l’Archivio di Stato di Napoli. Infine, una mia riflessione personale sulla Giornata della Memoria: vorrei che si partisse dagli orrori dell’Olocausto per condannare e ricordare ogni forma di genocidio, perpetrata dall’uomo nei confronti di qualsiasi popolo ed etnia, siano le vittime pellerossa, armeni, curdi o qualsiasi altro popolo.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2020
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno, dal 2006, per commemorare le vittime dell’Olocausto. All’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, durante una riunione plenaria del 1° novembre 2005, si è decisa questa data per ricordare il 27 gennaio 1945, giorno in cui l’Armata Rossa sovietica liberò il campo di concentramento di Auschwitz. Il Giorno della Memoria, in Italia, fu formalmente istituito con qualche anno di anticipo rispetto alla risoluzione dell’ONU, ma prima di giungere alla data del 27 gennaio (universalmente riconosciuta come Giornata della Memoria), ci fu un ampio e acceso dibattito politico; e le opzioni alternative alla data finale furono due: una data che rimarcasse gli orrori delle leggi razziali italiane emanate dal 1938 fino alla fine della guerra; una data che mettesse l’accento sulle deportazioni politiche e quindi sulle persecuzioni subite da italiani cattolici, ma oppositori del regime fascista. Nel primo caso, su proposta del deputato Furio Colombo, si pensò al 16 ottobre, per ricordare il grande rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto in quel giorno nel 1943; nel secondo caso si pensò al 5 maggio, anniversario della liberazione di Mauthausen, usato in larga parte per i deportati politici. La Giornata della Memoria non è solamente una data, ma anche uno spunto per dibattiti e seminari sugli orrori dell’Olocausto. Voglio citare l’iniziativa, nel 2010, dell’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale” e del Centro di Studi Ebraici, che organizzarono una serie di giornate di studio sulle leggi razziali, presso l’Archivio di Stato di Napoli. Infine, una mia riflessione personale sulla Giornata della Memoria: vorrei che si partisse dagli orrori dell’Olocausto per condannare e ricordare ogni forma di genocidio, perpetrata dall’uomo nei confronti di qualsiasi popolo ed etnia, siano le vittime pellerossa, armeni, curdi o qualsiasi altro popolo.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2020
IL REGNO DELLE DUE SICILIE
di Paolo Galignano
Il giorno dell’Immacolata del lontano 1816 nacque, nel Meridione pre-Unitario, il Regno delle Due Sicilie. Tale regno, sotto la protezione del re Borbone, fu formato dalla fusione dei due regni borbonici: il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia. Tale fusione avvenne con la Legge Fondamentale del Regno delle Due Sicilie. Ma la nascita di tale regno, che unificò i due Stati più grandi del Sud italico, ha le sue origini nella fine di Napoleone Bonaparte, del conseguente Congresso di Vienna e del Trattato di Casalanza. La sua capitale, inizialmente a Palermo, fu nel 1817 spostata a Napoli. Il Regno delle Due Sicilie comprendeva un vastissimo territorio che includeva (oltre a tutta la Sicilia e tutta la Campania, eccetto Benevento) l e odierne Puglia, Calabria, Basilicata, Molise, Abruzzo e le zone laziali sud - orientali. L’Unità d’Italia pose fine al Regno delle Due Sicilie, con la resa di Francesco II e la firma dell’armistizio il 17 febbraio 1861. Fu uno degli stati italici più potenti di quel secolo, dove si registrarono sviluppi economici e sociali mai visti a Napoli e in tutto il Meridione; e gran parte del progresso e dei risultati raggiunti furono spazzati via dalla nuova situazione geopolitica Unitaria. Per dovere di cronaca storica, elencherò solo alcuni dei numerosi primati raggiunti da Napoli e dal Regno delle Due Sicilie: “Real Teatro San Carlo” nel 1737, il più antico teatro d’opera in Europa e sede della prima scuola di ballo, “Albergo dei Poveri” nel 1751 e nel 1839 la prima ferrovia italiana, con tratto Napoli - Portici, avente illuminazione a gas.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2019
Il giorno dell’Immacolata del lontano 1816 nacque, nel Meridione pre-Unitario, il Regno delle Due Sicilie. Tale regno, sotto la protezione del re Borbone, fu formato dalla fusione dei due regni borbonici: il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia. Tale fusione avvenne con la Legge Fondamentale del Regno delle Due Sicilie. Ma la nascita di tale regno, che unificò i due Stati più grandi del Sud italico, ha le sue origini nella fine di Napoleone Bonaparte, del conseguente Congresso di Vienna e del Trattato di Casalanza. La sua capitale, inizialmente a Palermo, fu nel 1817 spostata a Napoli. Il Regno delle Due Sicilie comprendeva un vastissimo territorio che includeva (oltre a tutta la Sicilia e tutta la Campania, eccetto Benevento) l e odierne Puglia, Calabria, Basilicata, Molise, Abruzzo e le zone laziali sud - orientali. L’Unità d’Italia pose fine al Regno delle Due Sicilie, con la resa di Francesco II e la firma dell’armistizio il 17 febbraio 1861. Fu uno degli stati italici più potenti di quel secolo, dove si registrarono sviluppi economici e sociali mai visti a Napoli e in tutto il Meridione; e gran parte del progresso e dei risultati raggiunti furono spazzati via dalla nuova situazione geopolitica Unitaria. Per dovere di cronaca storica, elencherò solo alcuni dei numerosi primati raggiunti da Napoli e dal Regno delle Due Sicilie: “Real Teatro San Carlo” nel 1737, il più antico teatro d’opera in Europa e sede della prima scuola di ballo, “Albergo dei Poveri” nel 1751 e nel 1839 la prima ferrovia italiana, con tratto Napoli - Portici, avente illuminazione a gas.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2019
CADUTI IN GUERRA: LUIGI DE DONNO
di Paolo Galignano
La Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate in questo 2019 compie un secolo di vita. Infatti fu istituita nel 1919 per commemorare la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, e si riferisce alla data dell'entrata in vigore dell'armistizio di Villa Giusti (firmato il 3 novembre 1918) e della resa dell'Impero austro-ungarico. Nel 2019 ricorre un altro centenario, collegato a questa festività e alla comunità di Porto Cesareo: l’anno di nascita di Luigi “Gigi” De Donno, nato il 14 giugno 1919 ad Aradeo, sebbene la sua breve vita l’abbia vissuta, appunto, di fronte il mare di Porto Cesareo. “Gigi” De Donno è stato un marinaio e sommergibilista cesarino che nella primavera del 1941 dette la sua vita per la Patria; era, infatti, a bordo del sommergibile Pier Capponi, che fu silurato e affondato nelle acque tirreniche delle Isole Eolie, il 31 marzo 1941 (seppur dichiarato scomparso soltanto il 12 aprile ’41), dal sommergibile britannico Rorqual, comandato dall’ufficiale Ronald Dewhurst. Il Pier Capponi viaggiava a equipaggio ridotto (5 ufficiali e 33 marinai) in rotta verso La Spezia, dove avrebbero riparato i danni subiti in una precedente battaglia navale; ed era costretto (per i danni subiti) a navigare in superficie e nulla riuscì a fare contro la flotta britannica che si trovò sulla sua rotta di navigazione. Il Marinaio comune di I classe Luigi De Donno, diventato poi sottonocchiere “alla memoria” il 1° maggio 1941, non aveva ancora compiuto ventidue anni quando perse la vita, inghiottito, coi suoi commilitoni, dalle acque sicule del Tirreno. La comunità di Porto Cesareo ricorda sempre con affetto e orgoglio il suo cittadino caduto in guerra quel maledetto giorno di primavera nel 1941. A lui è stata dedicata una via del paese.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2019
La Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate in questo 2019 compie un secolo di vita. Infatti fu istituita nel 1919 per commemorare la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, e si riferisce alla data dell'entrata in vigore dell'armistizio di Villa Giusti (firmato il 3 novembre 1918) e della resa dell'Impero austro-ungarico. Nel 2019 ricorre un altro centenario, collegato a questa festività e alla comunità di Porto Cesareo: l’anno di nascita di Luigi “Gigi” De Donno, nato il 14 giugno 1919 ad Aradeo, sebbene la sua breve vita l’abbia vissuta, appunto, di fronte il mare di Porto Cesareo. “Gigi” De Donno è stato un marinaio e sommergibilista cesarino che nella primavera del 1941 dette la sua vita per la Patria; era, infatti, a bordo del sommergibile Pier Capponi, che fu silurato e affondato nelle acque tirreniche delle Isole Eolie, il 31 marzo 1941 (seppur dichiarato scomparso soltanto il 12 aprile ’41), dal sommergibile britannico Rorqual, comandato dall’ufficiale Ronald Dewhurst. Il Pier Capponi viaggiava a equipaggio ridotto (5 ufficiali e 33 marinai) in rotta verso La Spezia, dove avrebbero riparato i danni subiti in una precedente battaglia navale; ed era costretto (per i danni subiti) a navigare in superficie e nulla riuscì a fare contro la flotta britannica che si trovò sulla sua rotta di navigazione. Il Marinaio comune di I classe Luigi De Donno, diventato poi sottonocchiere “alla memoria” il 1° maggio 1941, non aveva ancora compiuto ventidue anni quando perse la vita, inghiottito, coi suoi commilitoni, dalle acque sicule del Tirreno. La comunità di Porto Cesareo ricorda sempre con affetto e orgoglio il suo cittadino caduto in guerra quel maledetto giorno di primavera nel 1941. A lui è stata dedicata una via del paese.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2019
4 NOVEMBRE: ONORE AI CADUTI
di Dario Dell’Atti
Il 4 novembre si celebra in tutta Italia la giornata delle forze armate e dei caduti in guerra. Nel cuore della nostra marina jonica, precisamente in piazza “Alcide De Gasperi”, zona Pro Loco, sotto un aimè piccola e scolorita bandiera italiana, c’è il monumento ai Caduti in guerra. Sicuramente non bastano queste poche righe per ricordare i cesarini morti nel primo e nel secondo conflitto mondiale, ma resta il fatto che è importante, che la comunità, tenga vivo il ricordo di quei fratelli che non fecero ritorno. Come in tutta Italia, anche le madri di Porto Cesareo hanno subito il sopruso di veder partire i propri figli verso il fronte. Ragazzi poco più che ventenni, che alla chiamata abbandonarono la famiglia, il lavoro della terra e del mare, per indossare elmetto e imbracciare un fucile. Giovani uomini che hanno risposto alla chiamata della Patria e per la Patria sono morti. Oggi li ricordiamo tutti sul giornale, nella speranza che leggendo i loro nomi, ci possa venire in mente l’importanza della parola “pace”, una parola che ormai diversi leader mondiali hanno dimenticato. Le miserie delle guerre, anche di quelle che a noi sembrano più lontane, non hanno tempo ne confini; condividono tutte allo stesso modo, l’obiettivo di spezzare giovani vite. Giovani come quelle dei nostri concittadini, partiti e mai più tornati. Ecco di seguito i nomi riportati sulla targhetta commemorativa:
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2019
Il 4 novembre si celebra in tutta Italia la giornata delle forze armate e dei caduti in guerra. Nel cuore della nostra marina jonica, precisamente in piazza “Alcide De Gasperi”, zona Pro Loco, sotto un aimè piccola e scolorita bandiera italiana, c’è il monumento ai Caduti in guerra. Sicuramente non bastano queste poche righe per ricordare i cesarini morti nel primo e nel secondo conflitto mondiale, ma resta il fatto che è importante, che la comunità, tenga vivo il ricordo di quei fratelli che non fecero ritorno. Come in tutta Italia, anche le madri di Porto Cesareo hanno subito il sopruso di veder partire i propri figli verso il fronte. Ragazzi poco più che ventenni, che alla chiamata abbandonarono la famiglia, il lavoro della terra e del mare, per indossare elmetto e imbracciare un fucile. Giovani uomini che hanno risposto alla chiamata della Patria e per la Patria sono morti. Oggi li ricordiamo tutti sul giornale, nella speranza che leggendo i loro nomi, ci possa venire in mente l’importanza della parola “pace”, una parola che ormai diversi leader mondiali hanno dimenticato. Le miserie delle guerre, anche di quelle che a noi sembrano più lontane, non hanno tempo ne confini; condividono tutte allo stesso modo, l’obiettivo di spezzare giovani vite. Giovani come quelle dei nostri concittadini, partiti e mai più tornati. Ecco di seguito i nomi riportati sulla targhetta commemorativa:
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2019
LA BATTAGLIA DI POITIERS
di Paolo Galignano
“Re Carlo tornava dalla guerra, lo accoglie la sua terra, cingendolo d'allor …” Così iniziava la canzone con la quale Fabrizio De André, con la sua solita pungente ironia, “canzonava” le imprese belliche e amorose di Carlo Martello, di ritorno dalla battaglia di Poitiers. Nella realtà storica, però, i fatti descrivono una battaglia molto cruenta, che assunse le dimensioni e le sembianze di un vero massacro. La battaglia di Poitiers, avvenuta in ottobre (probabilmente intorno al 25 del mese) del 732, fu combattuta tra l'esercito arabo-berbero musulmano di al-Andalus (odierna Andalusia), comandato dal suo governatore, ʿAbd al-Raḥmān b. ʿAbd Allāh al-Ghāfiqī (wali), e quello dei Franchi di Carlo Martello, maggiordomo di palazzo (equivalente a capo dell'esecutivo e dell'esercito) dei re merovingi (prima dinastia dei re dei Franchi). Il conflitto nacque dall’esigenza di respingere i musulmani dalle terre di Aquitania, e dalle città di Bordeaux e Tours; il duca di Aquitania, Oddone, dopo vani tentativi di risolvere da solo la situazione, fu costretto, suo malgrado a richiedere aiuto a Carlo Martello, che accettò a patto che fosse lui alla guida dell’esercito opposto agli arabo-berberi; era un esercito composto da diversi popoli, ma formato principalmente da Franchi. Le strategie militari di Carlo Martello risultarono vincenti: l’espediente del diversivo sul campo musulmano fu decisivo per far retrocedere parte della cavalleria nemica, lasciando gli arcieri berberi in balia dei soldati guidati da Carlo. La cavalleria di Oddone, nascosta nel bosco, colpì, senza via di fuga, il fianco destro dell’esercito musulmano. La vittoria di Poitiers non spostò di molto gli equilibri geopolitici in quell’area, in quanto i musulmani furono sconfitti, ma non cacciati via definitivamente. Poitiers significò molto per la carriera politica di Carlo Martello, perché dette il là al futuro imperiale per sé e per la sua casata, fino a suo nipote Carlo Magno.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2019
“Re Carlo tornava dalla guerra, lo accoglie la sua terra, cingendolo d'allor …” Così iniziava la canzone con la quale Fabrizio De André, con la sua solita pungente ironia, “canzonava” le imprese belliche e amorose di Carlo Martello, di ritorno dalla battaglia di Poitiers. Nella realtà storica, però, i fatti descrivono una battaglia molto cruenta, che assunse le dimensioni e le sembianze di un vero massacro. La battaglia di Poitiers, avvenuta in ottobre (probabilmente intorno al 25 del mese) del 732, fu combattuta tra l'esercito arabo-berbero musulmano di al-Andalus (odierna Andalusia), comandato dal suo governatore, ʿAbd al-Raḥmān b. ʿAbd Allāh al-Ghāfiqī (wali), e quello dei Franchi di Carlo Martello, maggiordomo di palazzo (equivalente a capo dell'esecutivo e dell'esercito) dei re merovingi (prima dinastia dei re dei Franchi). Il conflitto nacque dall’esigenza di respingere i musulmani dalle terre di Aquitania, e dalle città di Bordeaux e Tours; il duca di Aquitania, Oddone, dopo vani tentativi di risolvere da solo la situazione, fu costretto, suo malgrado a richiedere aiuto a Carlo Martello, che accettò a patto che fosse lui alla guida dell’esercito opposto agli arabo-berberi; era un esercito composto da diversi popoli, ma formato principalmente da Franchi. Le strategie militari di Carlo Martello risultarono vincenti: l’espediente del diversivo sul campo musulmano fu decisivo per far retrocedere parte della cavalleria nemica, lasciando gli arcieri berberi in balia dei soldati guidati da Carlo. La cavalleria di Oddone, nascosta nel bosco, colpì, senza via di fuga, il fianco destro dell’esercito musulmano. La vittoria di Poitiers non spostò di molto gli equilibri geopolitici in quell’area, in quanto i musulmani furono sconfitti, ma non cacciati via definitivamente. Poitiers significò molto per la carriera politica di Carlo Martello, perché dette il là al futuro imperiale per sé e per la sua casata, fino a suo nipote Carlo Magno.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2019
IL GENERALE DALLA CHIESA
di Paolo Galignano
Una calda sera di settembre di 27 anni fa, il terzo giorno del mese, nella bellissima Palermo, il generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa trovò la morte per mano della mafia; rimase vittima di un attentato mafioso, nel quale persero la vita anche sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Il 30 aprile dello stesso anno si era insediato in città, nella carica di prefetto, dopo la nomina avvenuta il 6 aprile; proprio il giorno dell’omicidio di Pio La Torre, che aveva caldeggiato la sua nomina. Dalla Chiesa, figlio di un generale dei Carabinieri e laureato, a Torino, in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, arrivò in Sicilia dopo aver ottenuto grandi successi, qualche anno prima, nella lotta al terrorismo e alle Brigate Rosse. Fu lui a fondare il Nucleo Speciale Antiterrorismo, per contrastare gli attentati dei brigatisti e il dilagante terrorismo politico degli anni settanta. Fu il governo Spadolini a nominarlo prefetto del capoluogo siciliano, nella speranza che potesse raggiungere gli stessi risultati ottenuti contro le Bierre. Un mese prima del suo omicidio, Dalla Chiesa, in una intervista al famoso giornalista e scrittore Giorgio Bocca, manifestò tutto il suo rammarico per l’evidente carenza di sostegno e mezzi, promessi dalle Istituzioni; mezzi necessari per la lotta alla mafia che, nei suoi piani, doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità l’imponente presenza delle forze dell’ordine. Pochi giorni prima di quel delittuoso 3 settembre, una telefonata anonima ai carabinieri di Palermo annunciava l’imminente attentato al generale Dalla Chiesa dicendo: “l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa”. Ai funerali la grande folla contestò la presenza dei politici, ritenuti responsabili indiretti dell’attentato e la figlia Rita fece togliere le corone di fiori inviate dalla Regione Sicilia. Fu risparmiato dalle critiche soltanto il Presidente Sandro Pertini.
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2019
Una calda sera di settembre di 27 anni fa, il terzo giorno del mese, nella bellissima Palermo, il generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa trovò la morte per mano della mafia; rimase vittima di un attentato mafioso, nel quale persero la vita anche sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Il 30 aprile dello stesso anno si era insediato in città, nella carica di prefetto, dopo la nomina avvenuta il 6 aprile; proprio il giorno dell’omicidio di Pio La Torre, che aveva caldeggiato la sua nomina. Dalla Chiesa, figlio di un generale dei Carabinieri e laureato, a Torino, in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, arrivò in Sicilia dopo aver ottenuto grandi successi, qualche anno prima, nella lotta al terrorismo e alle Brigate Rosse. Fu lui a fondare il Nucleo Speciale Antiterrorismo, per contrastare gli attentati dei brigatisti e il dilagante terrorismo politico degli anni settanta. Fu il governo Spadolini a nominarlo prefetto del capoluogo siciliano, nella speranza che potesse raggiungere gli stessi risultati ottenuti contro le Bierre. Un mese prima del suo omicidio, Dalla Chiesa, in una intervista al famoso giornalista e scrittore Giorgio Bocca, manifestò tutto il suo rammarico per l’evidente carenza di sostegno e mezzi, promessi dalle Istituzioni; mezzi necessari per la lotta alla mafia che, nei suoi piani, doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità l’imponente presenza delle forze dell’ordine. Pochi giorni prima di quel delittuoso 3 settembre, una telefonata anonima ai carabinieri di Palermo annunciava l’imminente attentato al generale Dalla Chiesa dicendo: “l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa”. Ai funerali la grande folla contestò la presenza dei politici, ritenuti responsabili indiretti dell’attentato e la figlia Rita fece togliere le corone di fiori inviate dalla Regione Sicilia. Fu risparmiato dalle critiche soltanto il Presidente Sandro Pertini.
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2019
LECCE: RIVOLUZIONE IN UN GIORNO
di Paolo Galignano
Era una fredda mattina di febbraio, l’ottava del mese, quando la Regia Udienza di Lecce e il Preside Francesco Marulli aderirono, senza alcun indugio, alla Repubblica. Immediatamente, il primo provvedimento simbolico della rivoluzione fu lo sventolio del tricolore francese sulla Regia Udienza e la decisione di piantare l’albero della Libertà, inequivocabile simbolo del Pensiero Liberale. Il clima di festa dei giacobini salentini pervase tutte le vie della città; la sera del 9 febbraio, accanto la statua di Sant’Oronzo, fu piantato l’albero della Libertà, che consisteva in una pianta di alloro, al vertice della quale fu posta un’asta con un berretto di panno rosso, dal quale scendeva una grande bandiera dai colori: giallo, rosso e celeste. Inoltre, fu anche esposto un quadro, nel Sedile, raffigurante una guerriera con un’asta e una coppola, a immagine della libertà giacobina. Ma, “come tutte le più belle cose …”, anche la Rivoluzione di Lecce durò solo un giorno: il popolo fu sobillato da preti e reazionari, che fecero credere loro che il Santo della città si fosse ribellato alla presenza di quell’albero e all’oscenità di quel quadro; furono quindi distrutti entrambi i simboli della libertà giacobina e furono sostituiti dai ritratti dei Reali Borbonici. Dal giorno seguente iniziò un lungo e sanguinoso periodo di terrore e repressione, durante il quale furono perseguitati, con minacce e processi sommari, tutti coloro che avevano manifestato simpatie giacobine e che erano sospettati di aver partecipato alla Rivoluzione di Lecce. Il 13 febbraio, si suicidò il Preside Francesco Marulli, uno dei principali fautori della rivoluzione giacobina salentina; la causa controrivoluzionaria si affermò definitivamente (in largo anticipo rispetto alle altre città italiane) l’8 marzo 1799, con l’insediamento, come Preside della Provincia, di Tommaso Luperto. Questo periodo di terrore terminò con la Pace di Firenze, con la Repubblica francese, nel febbraio 1801. (seconda parte)
PUBBLICATO NELL'AGOSTO 2019
Era una fredda mattina di febbraio, l’ottava del mese, quando la Regia Udienza di Lecce e il Preside Francesco Marulli aderirono, senza alcun indugio, alla Repubblica. Immediatamente, il primo provvedimento simbolico della rivoluzione fu lo sventolio del tricolore francese sulla Regia Udienza e la decisione di piantare l’albero della Libertà, inequivocabile simbolo del Pensiero Liberale. Il clima di festa dei giacobini salentini pervase tutte le vie della città; la sera del 9 febbraio, accanto la statua di Sant’Oronzo, fu piantato l’albero della Libertà, che consisteva in una pianta di alloro, al vertice della quale fu posta un’asta con un berretto di panno rosso, dal quale scendeva una grande bandiera dai colori: giallo, rosso e celeste. Inoltre, fu anche esposto un quadro, nel Sedile, raffigurante una guerriera con un’asta e una coppola, a immagine della libertà giacobina. Ma, “come tutte le più belle cose …”, anche la Rivoluzione di Lecce durò solo un giorno: il popolo fu sobillato da preti e reazionari, che fecero credere loro che il Santo della città si fosse ribellato alla presenza di quell’albero e all’oscenità di quel quadro; furono quindi distrutti entrambi i simboli della libertà giacobina e furono sostituiti dai ritratti dei Reali Borbonici. Dal giorno seguente iniziò un lungo e sanguinoso periodo di terrore e repressione, durante il quale furono perseguitati, con minacce e processi sommari, tutti coloro che avevano manifestato simpatie giacobine e che erano sospettati di aver partecipato alla Rivoluzione di Lecce. Il 13 febbraio, si suicidò il Preside Francesco Marulli, uno dei principali fautori della rivoluzione giacobina salentina; la causa controrivoluzionaria si affermò definitivamente (in largo anticipo rispetto alle altre città italiane) l’8 marzo 1799, con l’insediamento, come Preside della Provincia, di Tommaso Luperto. Questo periodo di terrore terminò con la Pace di Firenze, con la Repubblica francese, nel febbraio 1801. (seconda parte)
PUBBLICATO NELL'AGOSTO 2019
LECCE: RIVOLUZIONE IN UN GIORNO
di Paolo Galignano
“E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose …” Così cantava Fabrizio De André in una sua celebre canzone; e mi son venuti in mente questi versi, pensando alla Rivoluzione di Lecce, del febbraio 1799, quando, per la durata di circa 24 ore, i giacobini salentini aderirono alla Prima Repubblica Francese, come altre città borboniche in Italia e in Europa. Ma andiamo con ordine: in Francia, sulla spinta della Rivoluzione, il 25 settembre 1792 venne di fatto (seppur non ufficialmente) instaurata la Repubblica, definita una e indivisibile; e sopravvisse fino al 18 maggio 1804, giorno dell’incoronazione di Napoleone Bonaparte come Imperatore dei francesi. Negli anni della Prima Repubblica Francese, nacque in Europa una nuova modalità dell’esercizio del potere politico; in varie zone del continente, e in Italia, sorsero moti rivoluzionari, che crearono piccole repubbliche sul modello transalpino. Anche a Napoli nacque la Repubblica giacobina; nella mattinata dell’8 febbraio 1799, arrivò un plico postale alla Regia Udienza di Lecce, nella quale si comunicava che a Napoli, qualche giorno prima, entrò in città l’esercito francese, che destituì il re Ferdinando IV di Borbone e fu proclamata la Repubblica. L’effetto che questa clamorosa notizia ebbe sui cittadini leccesi, e ciò che ne conseguì nei giorni seguenti, è stato tramandato, sino ai giorni nostri, grazie al cronista (e testimone oculare) salentino Emanuele Buccarelli, che documentò fedelmente nascita e morte della rivoluzione di Lecce del 1799 in un manoscritto, dato poi alle stampe nel 1934 dallo storico Nicola Vacca. (prima parte)
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2019
“E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose …” Così cantava Fabrizio De André in una sua celebre canzone; e mi son venuti in mente questi versi, pensando alla Rivoluzione di Lecce, del febbraio 1799, quando, per la durata di circa 24 ore, i giacobini salentini aderirono alla Prima Repubblica Francese, come altre città borboniche in Italia e in Europa. Ma andiamo con ordine: in Francia, sulla spinta della Rivoluzione, il 25 settembre 1792 venne di fatto (seppur non ufficialmente) instaurata la Repubblica, definita una e indivisibile; e sopravvisse fino al 18 maggio 1804, giorno dell’incoronazione di Napoleone Bonaparte come Imperatore dei francesi. Negli anni della Prima Repubblica Francese, nacque in Europa una nuova modalità dell’esercizio del potere politico; in varie zone del continente, e in Italia, sorsero moti rivoluzionari, che crearono piccole repubbliche sul modello transalpino. Anche a Napoli nacque la Repubblica giacobina; nella mattinata dell’8 febbraio 1799, arrivò un plico postale alla Regia Udienza di Lecce, nella quale si comunicava che a Napoli, qualche giorno prima, entrò in città l’esercito francese, che destituì il re Ferdinando IV di Borbone e fu proclamata la Repubblica. L’effetto che questa clamorosa notizia ebbe sui cittadini leccesi, e ciò che ne conseguì nei giorni seguenti, è stato tramandato, sino ai giorni nostri, grazie al cronista (e testimone oculare) salentino Emanuele Buccarelli, che documentò fedelmente nascita e morte della rivoluzione di Lecce del 1799 in un manoscritto, dato poi alle stampe nel 1934 dallo storico Nicola Vacca. (prima parte)
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2019
NONNA RIVOLUZIONARIA:
TABACCHINE NEL SALENTO
di Dario Dell'Atti
Avete presente la vecchia nonna di un vostro parente o magari la vostra di nonna; vestita di scuro, intenta a farne mille che comunica a riti e dispensa proverbi. Ecco, ora immaginate se questa donna, ormai così bianca e indifesa, sia stata in gioventù un membro della protesta delle tabacchine. Quella, che nell’autunno del 1944 scese in piazza per i diritti delle donne, manifestando e subendo le cariche dalle gendarmerie leccesi. Proprio cosi, poveri noi sprovveduti, la nonna è una rivoluzionaria, e magari non lo sa. Magari a muso stretto come dice lei, ha solo lottato per i diritti che le venivano negati: “salari equi, contributi, la pausa pranzo o gabinetto”. Riflettendoci la parola “rivoluzionarie”, casca a pennello per queste madri coi pantaloni. In un meridione povero di fine anni 40, con l’Italia da ricostruire, il patriarcato e la condizione delle donne ben lontana da quella attuale, le prime a rivoltarsi contro il sistema e a esigere diritti sul lavoro, furono le tabacchine del Salento. A dare organizzazione a questo esercito autonomo, fu il sindacato leccese capitanato dalla caparbia Cristina Conchiglia, leader della lotta e successivamente politico del partito Comunista. Combatterono per anni, fino a che molte istanze non si trasformarono in diritti della neonata Repubblica. La famosa canzone “Fimmine Fimmine”, riportata di seguito, che oggi cantiamo e balliamo a ogni sagra di paese, e soprattutto alla Notte della Taranta, non ci deve solo far sorridere e battere le mani. La canzone di protesta, in ogni sua strofa racconta uno squarcio di quegli anni così difficili, dove fortunatamente c’è stata quella nonna vestita di nero, che gira per casa, ricama e cucina e per fortuna ha difeso i diritti di tutti.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2019
Avete presente la vecchia nonna di un vostro parente o magari la vostra di nonna; vestita di scuro, intenta a farne mille che comunica a riti e dispensa proverbi. Ecco, ora immaginate se questa donna, ormai così bianca e indifesa, sia stata in gioventù un membro della protesta delle tabacchine. Quella, che nell’autunno del 1944 scese in piazza per i diritti delle donne, manifestando e subendo le cariche dalle gendarmerie leccesi. Proprio cosi, poveri noi sprovveduti, la nonna è una rivoluzionaria, e magari non lo sa. Magari a muso stretto come dice lei, ha solo lottato per i diritti che le venivano negati: “salari equi, contributi, la pausa pranzo o gabinetto”. Riflettendoci la parola “rivoluzionarie”, casca a pennello per queste madri coi pantaloni. In un meridione povero di fine anni 40, con l’Italia da ricostruire, il patriarcato e la condizione delle donne ben lontana da quella attuale, le prime a rivoltarsi contro il sistema e a esigere diritti sul lavoro, furono le tabacchine del Salento. A dare organizzazione a questo esercito autonomo, fu il sindacato leccese capitanato dalla caparbia Cristina Conchiglia, leader della lotta e successivamente politico del partito Comunista. Combatterono per anni, fino a che molte istanze non si trasformarono in diritti della neonata Repubblica. La famosa canzone “Fimmine Fimmine”, riportata di seguito, che oggi cantiamo e balliamo a ogni sagra di paese, e soprattutto alla Notte della Taranta, non ci deve solo far sorridere e battere le mani. La canzone di protesta, in ogni sua strofa racconta uno squarcio di quegli anni così difficili, dove fortunatamente c’è stata quella nonna vestita di nero, che gira per casa, ricama e cucina e per fortuna ha difeso i diritti di tutti.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2019
PORTO CESAREO, COMUNE DI NARDO
di Dario Dell'Atti
Provate a pensare, come sarebbe stato strano se non a dir poco bizzarro, vedere all'ingresso della nostra marina la scritta che il titolo suggerisce! Il 16 maggio, nell'indifferenza quasi totale, ricorreva la giornata commemorativa dell'Autonomia Cesarina dal comune di Nardò. Il 1975 per la storia del nostro comune, e per quella di tutti noi, non può essere un anno come tutti gli altri. Mentre in Europa si combatteva la crisi del petrolio e in Italia veniva arrestato Luciano Liggio, il 16 maggio 1975 Porto Cesareo si scrollava definitivamente il potere neretino. Questo giorno così importante è frutto di un lavoro assiduo e tenace di un gruppo di uomini capitanati da Raffaele Sambati, che riuscirono a proclamare il referendum del 1975. La voglia d'autonomia suscitata da questi uomini fece breccia nei cuori di (quasi) tutti i cesarini che unitisi in massa, manifestarono la loro esigenza di libertà. Il Referendum del 1975 anche se sembra qualcosa così lontana da noi, in un certo senso ha segnato la storia di tutti noi. Chissà, se sotto un altro comune Porto Cesareo avrebbe avuto lo stesso boom economico - turistico? Questo di certo noi non possiamo dirlo. Sicuramente oggi possiamo prendere più coscienza di quelli che siamo, ovvero: "gente di Porto Cesareo" nativi di un paradiso terrestre ricco di mare storia e cultura che sta a noi difendere e valorizzare, sempre di più. Un ringraziamento speciale va al Comitato per l'autonomia municipale di Porto Cesareo: Raffaele Sambati (Presidente), Francesco Saracino, Salvatore Greco, Fiorentino Greco, Carmine Pietrarota, Giuseppe Rizzello, Rocco Durante, Giuseppe Colelli, Pietro Falli, Antonio Giaccari, Felice Greco, Antonio Greco, Sebastiano Greco, Giovanni Leanza, Vito Nestola, Pasquale Peluso, Remo Peluso, Biagio Perini, Santo Rizzello, Salvatore Rizzello.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2019
Provate a pensare, come sarebbe stato strano se non a dir poco bizzarro, vedere all'ingresso della nostra marina la scritta che il titolo suggerisce! Il 16 maggio, nell'indifferenza quasi totale, ricorreva la giornata commemorativa dell'Autonomia Cesarina dal comune di Nardò. Il 1975 per la storia del nostro comune, e per quella di tutti noi, non può essere un anno come tutti gli altri. Mentre in Europa si combatteva la crisi del petrolio e in Italia veniva arrestato Luciano Liggio, il 16 maggio 1975 Porto Cesareo si scrollava definitivamente il potere neretino. Questo giorno così importante è frutto di un lavoro assiduo e tenace di un gruppo di uomini capitanati da Raffaele Sambati, che riuscirono a proclamare il referendum del 1975. La voglia d'autonomia suscitata da questi uomini fece breccia nei cuori di (quasi) tutti i cesarini che unitisi in massa, manifestarono la loro esigenza di libertà. Il Referendum del 1975 anche se sembra qualcosa così lontana da noi, in un certo senso ha segnato la storia di tutti noi. Chissà, se sotto un altro comune Porto Cesareo avrebbe avuto lo stesso boom economico - turistico? Questo di certo noi non possiamo dirlo. Sicuramente oggi possiamo prendere più coscienza di quelli che siamo, ovvero: "gente di Porto Cesareo" nativi di un paradiso terrestre ricco di mare storia e cultura che sta a noi difendere e valorizzare, sempre di più. Un ringraziamento speciale va al Comitato per l'autonomia municipale di Porto Cesareo: Raffaele Sambati (Presidente), Francesco Saracino, Salvatore Greco, Fiorentino Greco, Carmine Pietrarota, Giuseppe Rizzello, Rocco Durante, Giuseppe Colelli, Pietro Falli, Antonio Giaccari, Felice Greco, Antonio Greco, Sebastiano Greco, Giovanni Leanza, Vito Nestola, Pasquale Peluso, Remo Peluso, Biagio Perini, Santo Rizzello, Salvatore Rizzello.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2019
I NOSTRI CENTO PASSI
di Giuseppe Gorbelli
Quel ragazzo magro, con gli occhiali e la barba incolta, nato in una famiglia di mafia: il marito di sua zia, Cesare Manzella, era il capo della famiglia mafiosa di Cinisi e suo padre, Luigi, era amico di Gaetano Badalamenti, al vertice di Cosa Nostra prima dell’arrivo dei Corleonesi. Peppino Impastato era certamente una persona sofferente, volitiva e capace di lottare per la giustizia sociale. Voglioso di ritrovare nell’opposizione alla mafia la propria ragion d’essere. Esperienze diverse ne fecero di lui un personaggio scomodo: dall’ampliamento dell’aeroporto di Punta Raisi al traffico di droga, passando per gli affari del cemento, in cui imprenditori, politici e mafiosi andavano a braccetto. Peppino denunciava con gli amici, quelli di Radio Aut. Quegli stessi amici che erano alla ferrovia la mattina del 9 maggio 1978, ma a cui fu impedito di avvicinarsi alla scena del delitto. A distanza di anni Peppino ora merita di essere ricordato come un eroe innocente ucciso dalla mafia. E hanno voluto rendere omaggio a Peppino anche i ragazzi dell’Istituto Comprensivo di Porto Cesareo, all’interno della tre giorni, chiamata “I nostri Cento Passi”, voluta fortemente dalla Preside Ornella Castellano, dal 6 all’8 aprile. La prima giornata è stata scandita dalla Marcia per la Legalità, partita dal Palazzo Comunale e proseguita per le vie del paese alla presenza delle autorità istituzionali; poi inaugurazione della mostra presso l'auditorium I Negro della Scuola Secondaria di primo grado, alla presenza del giudice senatore Alberto Maritati, con esibizione del coro d'Istituto "I Guardiani del Faro"; nel pomeriggio il concerto dei Cantacunti "Papa Galeazzo". Nei restanti due giorni invece la possibilità di visitare la mostra per i genitori e le scolaresche.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2019
Quel ragazzo magro, con gli occhiali e la barba incolta, nato in una famiglia di mafia: il marito di sua zia, Cesare Manzella, era il capo della famiglia mafiosa di Cinisi e suo padre, Luigi, era amico di Gaetano Badalamenti, al vertice di Cosa Nostra prima dell’arrivo dei Corleonesi. Peppino Impastato era certamente una persona sofferente, volitiva e capace di lottare per la giustizia sociale. Voglioso di ritrovare nell’opposizione alla mafia la propria ragion d’essere. Esperienze diverse ne fecero di lui un personaggio scomodo: dall’ampliamento dell’aeroporto di Punta Raisi al traffico di droga, passando per gli affari del cemento, in cui imprenditori, politici e mafiosi andavano a braccetto. Peppino denunciava con gli amici, quelli di Radio Aut. Quegli stessi amici che erano alla ferrovia la mattina del 9 maggio 1978, ma a cui fu impedito di avvicinarsi alla scena del delitto. A distanza di anni Peppino ora merita di essere ricordato come un eroe innocente ucciso dalla mafia. E hanno voluto rendere omaggio a Peppino anche i ragazzi dell’Istituto Comprensivo di Porto Cesareo, all’interno della tre giorni, chiamata “I nostri Cento Passi”, voluta fortemente dalla Preside Ornella Castellano, dal 6 all’8 aprile. La prima giornata è stata scandita dalla Marcia per la Legalità, partita dal Palazzo Comunale e proseguita per le vie del paese alla presenza delle autorità istituzionali; poi inaugurazione della mostra presso l'auditorium I Negro della Scuola Secondaria di primo grado, alla presenza del giudice senatore Alberto Maritati, con esibizione del coro d'Istituto "I Guardiani del Faro"; nel pomeriggio il concerto dei Cantacunti "Papa Galeazzo". Nei restanti due giorni invece la possibilità di visitare la mostra per i genitori e le scolaresche.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2019