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La rubrica ARTE & SALENTO di ECCLESIA nasce nel 2017, con l'idea di riservare spazio all'arte salentina, attraverso artisti sorprendenti, ma meno noti. Pittura, scultura e creazioni particolari riempiranno piacevolmente la lettura, su un tema che continua a conservare un fascino immutato nel tempo.
LE SCULTURE
DI SPEDICATO
di Vanessa Paladini
Le sculture Salvatore Spedicato, classe 1939, seguono un lungo itinerario artistico: dalle opere degli esordi della seconda metà degli anni Cinquanta (Ritratto del nonno, matita) sino a quelle più mature degli anni 1980-2011. L’artista, formatosi presso l’Istituto d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce, dal 1971 sino al 2006 occupa la cattedra di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Numerose, nella produzione, sono le opere che richiamano le radici antropologiche di Spedicato, considerate «segni e testimonianze storiche della sua terra d’origine» da Lucio Galante, come ad esempio il bronzo Frammento di un muro antico con erba; “La mia terra antica”, ricostruzione dei muretti a secco della civiltà contadina; l’astrazione simbolica presente in Civiltà Mediterranea e la rappresentazione modernista, nonché vero e proprio oggetto polimaterico, del Menhir del 1970. Nel periodo di maturità di Spedicato si inserisce un omaggio alla salentina Caterina Durante (detta Rina), un busto in bronzo (65x38x30) realizzato nel 2011 e ubicato presso il centro “Koinè” di Melendugno, paese d’origine della scrittrice, scomparsa alla fine del 2004. La Durante è rappresentata con una capigliatura mossa ma ordinata e sul suo volto, segnato dall’età, spicca uno sguardo fisso e deciso. Rina stringe al petto, con la mano sinistra e quasi con un fare materno, il romanzo «La Malapianta» con cui vinse, nel 1965, il Premio Salento. Salvatore Spedicato ha saputo certamente catturare l’essenza di questa donna che ha saputo, per amore della terra contadina, tracciare la “quistione meridionale”.
Per approfondire: Spedicato. Sculture 1956-2011, a cura di Lucio Galante e Massimo Guastella, Congedo Editore 2012.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
Le sculture Salvatore Spedicato, classe 1939, seguono un lungo itinerario artistico: dalle opere degli esordi della seconda metà degli anni Cinquanta (Ritratto del nonno, matita) sino a quelle più mature degli anni 1980-2011. L’artista, formatosi presso l’Istituto d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce, dal 1971 sino al 2006 occupa la cattedra di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Numerose, nella produzione, sono le opere che richiamano le radici antropologiche di Spedicato, considerate «segni e testimonianze storiche della sua terra d’origine» da Lucio Galante, come ad esempio il bronzo Frammento di un muro antico con erba; “La mia terra antica”, ricostruzione dei muretti a secco della civiltà contadina; l’astrazione simbolica presente in Civiltà Mediterranea e la rappresentazione modernista, nonché vero e proprio oggetto polimaterico, del Menhir del 1970. Nel periodo di maturità di Spedicato si inserisce un omaggio alla salentina Caterina Durante (detta Rina), un busto in bronzo (65x38x30) realizzato nel 2011 e ubicato presso il centro “Koinè” di Melendugno, paese d’origine della scrittrice, scomparsa alla fine del 2004. La Durante è rappresentata con una capigliatura mossa ma ordinata e sul suo volto, segnato dall’età, spicca uno sguardo fisso e deciso. Rina stringe al petto, con la mano sinistra e quasi con un fare materno, il romanzo «La Malapianta» con cui vinse, nel 1965, il Premio Salento. Salvatore Spedicato ha saputo certamente catturare l’essenza di questa donna che ha saputo, per amore della terra contadina, tracciare la “quistione meridionale”.
Per approfondire: Spedicato. Sculture 1956-2011, a cura di Lucio Galante e Massimo Guastella, Congedo Editore 2012.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
ORTELLE: MADONNA
DELLA GROTTA
di Vanessa Paladini
Nella periferia di Ortelle ci sono due cripte, una interrata sotto la Cappella di San Vito e/o di Santa Marina (1776) e descritta dal De Giorgi come «scavata nel tufo, con le pareti dipinte a fresco; sciupata dalle intemperie e dalla incuria incuria degli uomini, fu convertita in ossario del vicino cimitero». L’altra ancora accessibile chiamata «Madonna della Grotta», ricavata in un masso tufaceo e sormontata da un piccolo campanile a vela. Sebbene la zona Nord della cripta abbia subito dei crolli che hanno interessato in parte la volta con la distruzione di un’arcata, nella navata destra (presso l’ingresso) si può osservare ancora un affresco raffigurante alcune scene della Passione. Due sante reggono un drappo sul quale sono rappresentate, inscritte in tre cerchi, le seguenti scene: la flagellazione di Cristo, la sua crocifissione e la sua resurrezione. Al di sopra del drappo è raffigurato il Padre con ai lati due angeli; nella parte inferiore si notano i nimbi di sei santi, i cui volti sono in gran parte scomparsi. Delle due sante invece, quella a destra è adornata da un copricapo, mentre in mano regge una chiave; la santa a sinistra ha una corona e stringe la palma del martirio. Questa singolare scena si rivela un unicum per stile e iconografia negli insediamenti rupestri del Basso Salento ed è realizzata con una fattura raffinata databile al XIII secolo. Alcuni studiosi hanno ipotizzato, per questo affresco in particolare, un legame con una delle “Sindoni” che in quegli stessi anni erano diffuse in Europa. Gli altri affreschi, di più rozza fattura e databili tra il XVII e XVIII secolo, sono situati sulla parete delle absidi. Si tratta di una Vergine in trono con Bambino e alcuni santi (uno forse S. Eligio) e Vescovi anonimi. Infine, un altro piccolo affresco è situato su uno dei pilastri dell’invaso e rappresenta una Trinità.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
Nella periferia di Ortelle ci sono due cripte, una interrata sotto la Cappella di San Vito e/o di Santa Marina (1776) e descritta dal De Giorgi come «scavata nel tufo, con le pareti dipinte a fresco; sciupata dalle intemperie e dalla incuria incuria degli uomini, fu convertita in ossario del vicino cimitero». L’altra ancora accessibile chiamata «Madonna della Grotta», ricavata in un masso tufaceo e sormontata da un piccolo campanile a vela. Sebbene la zona Nord della cripta abbia subito dei crolli che hanno interessato in parte la volta con la distruzione di un’arcata, nella navata destra (presso l’ingresso) si può osservare ancora un affresco raffigurante alcune scene della Passione. Due sante reggono un drappo sul quale sono rappresentate, inscritte in tre cerchi, le seguenti scene: la flagellazione di Cristo, la sua crocifissione e la sua resurrezione. Al di sopra del drappo è raffigurato il Padre con ai lati due angeli; nella parte inferiore si notano i nimbi di sei santi, i cui volti sono in gran parte scomparsi. Delle due sante invece, quella a destra è adornata da un copricapo, mentre in mano regge una chiave; la santa a sinistra ha una corona e stringe la palma del martirio. Questa singolare scena si rivela un unicum per stile e iconografia negli insediamenti rupestri del Basso Salento ed è realizzata con una fattura raffinata databile al XIII secolo. Alcuni studiosi hanno ipotizzato, per questo affresco in particolare, un legame con una delle “Sindoni” che in quegli stessi anni erano diffuse in Europa. Gli altri affreschi, di più rozza fattura e databili tra il XVII e XVIII secolo, sono situati sulla parete delle absidi. Si tratta di una Vergine in trono con Bambino e alcuni santi (uno forse S. Eligio) e Vescovi anonimi. Infine, un altro piccolo affresco è situato su uno dei pilastri dell’invaso e rappresenta una Trinità.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
UGENTO: LA CRIPTA
DEL CROCIFISSO
di Vanessa Paladini
La chiesa - cripta del Crocifisso si trova sulla sinistra del bivio che da Ugento porta a Casarano e Melissano, sotto una cappella abbandonata. All’ambiente si accede attraverso una ripida scala, coperta a botte e preceduta da un portale cinquecentesco; più in basso l’ingresso originale all’ipogeo è sormontato da una lunetta affrescata. Il programma decorativo – non unitario – comprende un’Annunciazione, una Crocifissione, un S. Nicola e un Cristo e, sulla parete di fronte all’ingresso, due Vergini con Bambino. Tutta la volta della chiesa è decorata con animali fantastici, scudi crociati e stelle, mentre il resto dell’ambiente è imbiancato. Gli aspetti più interessanti, dal punto di vista artistico, di questa chiesa sono offerti dalle Vergini in trono con Bambino. La prima, a mezza figura, presenta l’iconografia tradizionale della «Vergine Eleusa» e, sebbene l’affresco sia in cattive condizioni, il trono si rivela riccamente decorato e i nimbi perlinati; al lato della Vergine si scorge la sigla inconsueta ST VG (Sancta Virgo). La seconda Vergine indossa l’imation sul chitone e ha il capo coperto da un velo, mentre il Bimbo ha il nimbo crocesignato. Questo affresco, eseguito sulla parte in muratura, è databile al XVI secolo circa e non è accompagnato da un’iscrizione. La descrizione di queste opere e la loro cronologia mette in relazione la Vergine Eleusa con il Cristo Pantocratore e il San Nicola, perché tutti collocabili attorno al XIV-XV secolo. La datazione, con tutta evidenza, si rivela abbastanza approssimativa - anche per via del ripetersi di questi schemi anche in epoca tarda -, ma certamente conduce l’osservatore a notare il perpetuarsi di iconografie «bizantineggianti» anche a distanza di secoli dalla scomparsa del legame con i centri materni d’Oriente.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
La chiesa - cripta del Crocifisso si trova sulla sinistra del bivio che da Ugento porta a Casarano e Melissano, sotto una cappella abbandonata. All’ambiente si accede attraverso una ripida scala, coperta a botte e preceduta da un portale cinquecentesco; più in basso l’ingresso originale all’ipogeo è sormontato da una lunetta affrescata. Il programma decorativo – non unitario – comprende un’Annunciazione, una Crocifissione, un S. Nicola e un Cristo e, sulla parete di fronte all’ingresso, due Vergini con Bambino. Tutta la volta della chiesa è decorata con animali fantastici, scudi crociati e stelle, mentre il resto dell’ambiente è imbiancato. Gli aspetti più interessanti, dal punto di vista artistico, di questa chiesa sono offerti dalle Vergini in trono con Bambino. La prima, a mezza figura, presenta l’iconografia tradizionale della «Vergine Eleusa» e, sebbene l’affresco sia in cattive condizioni, il trono si rivela riccamente decorato e i nimbi perlinati; al lato della Vergine si scorge la sigla inconsueta ST VG (Sancta Virgo). La seconda Vergine indossa l’imation sul chitone e ha il capo coperto da un velo, mentre il Bimbo ha il nimbo crocesignato. Questo affresco, eseguito sulla parte in muratura, è databile al XVI secolo circa e non è accompagnato da un’iscrizione. La descrizione di queste opere e la loro cronologia mette in relazione la Vergine Eleusa con il Cristo Pantocratore e il San Nicola, perché tutti collocabili attorno al XIV-XV secolo. La datazione, con tutta evidenza, si rivela abbastanza approssimativa - anche per via del ripetersi di questi schemi anche in epoca tarda -, ma certamente conduce l’osservatore a notare il perpetuarsi di iconografie «bizantineggianti» anche a distanza di secoli dalla scomparsa del legame con i centri materni d’Oriente.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
L'ANNUNCIAZIONE DI
GIAN DOMENICO CATALANO
di Vanessa Paladini
All’interno della chiesa della Presentazione della Beata Vergine Maria di Specchia è conservata l’Annunciazione dell’artista gallipolino Gian Domenico Catalano (1560-1627). L’olio su tela del pittore è datato 1614 e ha un impianto compositivo consueto, con la Vergine all’inginocchiatoio e l’angelo annunciatore con l’indice destro rivolto verso l’alto. L’angelo è al centro della composizione, divenendo fulcro spaziale e simbolico. È raffigurato con vesti mosse dal vento, sospeso in piedi su una nuvola, mentre nella mano sinistra trattiene un giglio terminante con tre fiori (simboli della triplice verginità di Maria). La Vergine non sembra turbata dalla sua presenza, ma rimane in ginocchio con le braccia incrociate sul petto e il capo chino dinanzi al mistero dell’incarnazione. L’elemento che governa la composizione è la luce, proiettata dalla colomba dello spirito santo, che illumina anche le coppie di angeli musicanti che dividono in due la scena. Davanti ai due gradini del piedistallo della Vergine sono ritratti i committenti che rendono lode, onore e gloria a Dio (TIBI SOLI DEO LAUS HONOR, ET GLORIA). L’uomo reca anche una corona in mano, simbolo della futura assunzione corporea della Vergine. L’attenzione riservata ai particolari, come gli strumenti musicali degli angeli, gli spartiti che essi sostengono, i due segnalibri del messale, derivano da conoscenze fiamminghe del Catalano, le cui influenze si rivelano proprio nelle annunciazioni. L’utilizzo di colori pastosi e intensi evidenzia il legame tra cultura e arte, profondità interiore e bellezza esteriore, in un gioco di realismo e sublimazione quasi perfetto.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
All’interno della chiesa della Presentazione della Beata Vergine Maria di Specchia è conservata l’Annunciazione dell’artista gallipolino Gian Domenico Catalano (1560-1627). L’olio su tela del pittore è datato 1614 e ha un impianto compositivo consueto, con la Vergine all’inginocchiatoio e l’angelo annunciatore con l’indice destro rivolto verso l’alto. L’angelo è al centro della composizione, divenendo fulcro spaziale e simbolico. È raffigurato con vesti mosse dal vento, sospeso in piedi su una nuvola, mentre nella mano sinistra trattiene un giglio terminante con tre fiori (simboli della triplice verginità di Maria). La Vergine non sembra turbata dalla sua presenza, ma rimane in ginocchio con le braccia incrociate sul petto e il capo chino dinanzi al mistero dell’incarnazione. L’elemento che governa la composizione è la luce, proiettata dalla colomba dello spirito santo, che illumina anche le coppie di angeli musicanti che dividono in due la scena. Davanti ai due gradini del piedistallo della Vergine sono ritratti i committenti che rendono lode, onore e gloria a Dio (TIBI SOLI DEO LAUS HONOR, ET GLORIA). L’uomo reca anche una corona in mano, simbolo della futura assunzione corporea della Vergine. L’attenzione riservata ai particolari, come gli strumenti musicali degli angeli, gli spartiti che essi sostengono, i due segnalibri del messale, derivano da conoscenze fiamminghe del Catalano, le cui influenze si rivelano proprio nelle annunciazioni. L’utilizzo di colori pastosi e intensi evidenzia il legame tra cultura e arte, profondità interiore e bellezza esteriore, in un gioco di realismo e sublimazione quasi perfetto.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
TESORI DAL MARE
di Annairis Rizzello
Correva il dicembre 2015 quando un pescatore professionista, Pasquale De Braco, scopriva un relitto nelle acque di Porto Cesareo, nei pressi della banchina di Levante, in direzione La Strea. Risalgono invece al 21 ottobre 2020 la messa in sicurezza dello stesso relitto, che probabilmente risale ad epoca medievale, tra il XII e il XIII secolo, secondo quanto affermato dall’archeologo subacqueo di UniSalento, Cristiano Alfonso. Sarà la datazione al radiocarbonio che verrà effettuata sui frammenti e sui resti, che indicherà il periodo certo di riferimento. Nonostante siano passati 5 anni dalla scoperta, i lavori recentemente svolti non sono diretti allo studio del sito, ma sono orientati alla sua protezione dalle mareggiate, fino al momento in cui saranno avviati gli scavi. L’imbarcazione che giace in mare è quasi interamente in legno, lunga 18 metri e larga 4,5, nei pressi della quale sono stati ritrovati anche resti di anfore. È una scoperta di elevato valore storico e archeologico, ma non è la prima nell’area Marina Protetta di Porto Cesareo: pensiamo a “Scala di Furnu” e alle numerosissime anfore, alle Colonne Greco - Romane sommerse, alle tombe contenenti delle ossa che il mare ha restituito nel novembre 2019, alla statua del dio egiziano Thoth, alle bombe nei pressi di Torre Chianca che vedevano l’isolotto come bersaglio militare per le esercitazioni e tanti altri reperti già noti e altri ancora da scoprire. L’appello della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e paesaggio è di non lasciare il sito a sé e di iniziare quanto prima gli studi, nonostante il difficoltoso periodo storico che stiamo vivendo.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
Correva il dicembre 2015 quando un pescatore professionista, Pasquale De Braco, scopriva un relitto nelle acque di Porto Cesareo, nei pressi della banchina di Levante, in direzione La Strea. Risalgono invece al 21 ottobre 2020 la messa in sicurezza dello stesso relitto, che probabilmente risale ad epoca medievale, tra il XII e il XIII secolo, secondo quanto affermato dall’archeologo subacqueo di UniSalento, Cristiano Alfonso. Sarà la datazione al radiocarbonio che verrà effettuata sui frammenti e sui resti, che indicherà il periodo certo di riferimento. Nonostante siano passati 5 anni dalla scoperta, i lavori recentemente svolti non sono diretti allo studio del sito, ma sono orientati alla sua protezione dalle mareggiate, fino al momento in cui saranno avviati gli scavi. L’imbarcazione che giace in mare è quasi interamente in legno, lunga 18 metri e larga 4,5, nei pressi della quale sono stati ritrovati anche resti di anfore. È una scoperta di elevato valore storico e archeologico, ma non è la prima nell’area Marina Protetta di Porto Cesareo: pensiamo a “Scala di Furnu” e alle numerosissime anfore, alle Colonne Greco - Romane sommerse, alle tombe contenenti delle ossa che il mare ha restituito nel novembre 2019, alla statua del dio egiziano Thoth, alle bombe nei pressi di Torre Chianca che vedevano l’isolotto come bersaglio militare per le esercitazioni e tanti altri reperti già noti e altri ancora da scoprire. L’appello della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e paesaggio è di non lasciare il sito a sé e di iniziare quanto prima gli studi, nonostante il difficoltoso periodo storico che stiamo vivendo.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
LA CRIPTA DEL PADRE ETERNO
di Vanessa Paladini
La Chiesa di Santa Maria della Grotta (ovvero Cripta del Padre Eterno) è menzionata tra le chiese che dipendevano dall’abbazia di San Nicola di Casole, come si evince da un inventario redatto il 25 aprile 1665 dal notaio Carlo Pasanisi, conservato nell’Archivio di Stato di Lecce e studiato da Ferrante Tanzi. La cripta è interamente scavata nella roccia e il suo accesso si deve ad un unico ingresso costituito da una piccola scala. La pianta del tempio è a croce greca, divisa in tre navate. Il soffitto, con volte a botte, in origine forse doveva comprendere una cupola. All’interno della struttura si individuano un altare principale, due laterali e un sedile in pietra dirimpetto all’altare che permetteva e invitava i cristiani a sedersi per meditare e pregare. Nell’abside centrale, infatti, era affrescata l’immagine del Padre Eterno, anche se numerose sono le raffigurazioni di Santi, soprattutto quelli indicanti il passaggio dal rito greco al rito latino. Di fattura orientale sono: una Vergine con iscrizione greca 1556 e due Vergini col Bambino. La veste di una delle due Vergini reca un classico decoro a otto punti. Una certa Maria, forse la committente di quest’opera, si fece ritrarre accanto alla Vergine, in preghiera e in proporzione molto più piccola. Tra gli affreschi di rito latino si identificano: San Francesco di Paola e una processione, certamente suggestiva, di incappucciati penitenti tipica del XVI secolo. La cripta dovrebbe risalire al secolo XI-XII, quando il monachesimo italo-greco era fiorente in Otranto e ancora oggi, gli affreschi rimasti sono accompagnati dai graffiti di pellegrini che, nel corso dei secoli, hanno lasciato qui il loro passaggio.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
La Chiesa di Santa Maria della Grotta (ovvero Cripta del Padre Eterno) è menzionata tra le chiese che dipendevano dall’abbazia di San Nicola di Casole, come si evince da un inventario redatto il 25 aprile 1665 dal notaio Carlo Pasanisi, conservato nell’Archivio di Stato di Lecce e studiato da Ferrante Tanzi. La cripta è interamente scavata nella roccia e il suo accesso si deve ad un unico ingresso costituito da una piccola scala. La pianta del tempio è a croce greca, divisa in tre navate. Il soffitto, con volte a botte, in origine forse doveva comprendere una cupola. All’interno della struttura si individuano un altare principale, due laterali e un sedile in pietra dirimpetto all’altare che permetteva e invitava i cristiani a sedersi per meditare e pregare. Nell’abside centrale, infatti, era affrescata l’immagine del Padre Eterno, anche se numerose sono le raffigurazioni di Santi, soprattutto quelli indicanti il passaggio dal rito greco al rito latino. Di fattura orientale sono: una Vergine con iscrizione greca 1556 e due Vergini col Bambino. La veste di una delle due Vergini reca un classico decoro a otto punti. Una certa Maria, forse la committente di quest’opera, si fece ritrarre accanto alla Vergine, in preghiera e in proporzione molto più piccola. Tra gli affreschi di rito latino si identificano: San Francesco di Paola e una processione, certamente suggestiva, di incappucciati penitenti tipica del XVI secolo. La cripta dovrebbe risalire al secolo XI-XII, quando il monachesimo italo-greco era fiorente in Otranto e ancora oggi, gli affreschi rimasti sono accompagnati dai graffiti di pellegrini che, nel corso dei secoli, hanno lasciato qui il loro passaggio.
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
NOCIGLIA E SANTA CESAREA
di Vanessa Paladini
La chiesa di Santa Maria dell’Itri a Nociglia ha un complesso programma figurativo che si sviluppa in diverse fasi pittoriche. La cronologia più antica, databile tra il 1065-1075 secondo André Jacob, si riscontra sulle pareti occidentali e settentrionali dell’edificio. Piccoli frammenti di una fase moderna invece, ad opera di un maestro salentino, si possono intravedere grazie ad una Trinità posta al centro della parete settentrionale. La decorazione cinquecentesca è stata poi offuscata dal restauro successivo della chiesa che, con molta probabilità, è da collocare attorno al XVII secolo. Ad essere particolarmente interessanti sono due figure: la Madonna con il bambino e una Santa, da Sergio Ortese identificata con Santa Cesarea. La Vergine, in posizione orante, ha le braccia sollevate mentre tra le ginocchia regge il figlio che effettua una benedizione alla greca, con la mano destra e, con la sinistra, stringe il libro delle sacre scritture. La composizione, sviluppata su un asse verticale, richiama soggetti mariani tardogotici già presenti sul territorio salentino. Tra i santi cinquecenteschi spicca certamente la figura di una Santa con in capo un turbante di seta bianca e dalla posa elegante. Secondo Ortese sarebbe la più antica rappresentazione ad oggi conosciuta di Santa Cesarea che nonostante «la perdita di dettagli arrecata da una vasta lacuna e dalla parziale sovrammissione di un San Leonardo, non impedisce la lettura di un titolo latino: (CA)ESAR(IA)». Ad avvalorare l’ipotesi, per Ortese, è il modellino che la Santa regge nella mano destra e che potrebbe essere un riferimento alla grotta marina di Castro, dove Santa Cesarea si era nascosta per sfuggire alle violenze del padre.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2020
La chiesa di Santa Maria dell’Itri a Nociglia ha un complesso programma figurativo che si sviluppa in diverse fasi pittoriche. La cronologia più antica, databile tra il 1065-1075 secondo André Jacob, si riscontra sulle pareti occidentali e settentrionali dell’edificio. Piccoli frammenti di una fase moderna invece, ad opera di un maestro salentino, si possono intravedere grazie ad una Trinità posta al centro della parete settentrionale. La decorazione cinquecentesca è stata poi offuscata dal restauro successivo della chiesa che, con molta probabilità, è da collocare attorno al XVII secolo. Ad essere particolarmente interessanti sono due figure: la Madonna con il bambino e una Santa, da Sergio Ortese identificata con Santa Cesarea. La Vergine, in posizione orante, ha le braccia sollevate mentre tra le ginocchia regge il figlio che effettua una benedizione alla greca, con la mano destra e, con la sinistra, stringe il libro delle sacre scritture. La composizione, sviluppata su un asse verticale, richiama soggetti mariani tardogotici già presenti sul territorio salentino. Tra i santi cinquecenteschi spicca certamente la figura di una Santa con in capo un turbante di seta bianca e dalla posa elegante. Secondo Ortese sarebbe la più antica rappresentazione ad oggi conosciuta di Santa Cesarea che nonostante «la perdita di dettagli arrecata da una vasta lacuna e dalla parziale sovrammissione di un San Leonardo, non impedisce la lettura di un titolo latino: (CA)ESAR(IA)». Ad avvalorare l’ipotesi, per Ortese, è il modellino che la Santa regge nella mano destra e che potrebbe essere un riferimento alla grotta marina di Castro, dove Santa Cesarea si era nascosta per sfuggire alle violenze del padre.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2020
CASARANELLO: SANTA MARIA
DELLA CROCE
di Vanessa Paladini
La chiesa di Santa Maria della Croce, a Casaranello, è certamente uno degli edifici paleocristiani presente in Salento e in Italia. Controversa risulta essere la questione delle origini del sacro edificio oggi intitolato a “Santa Maria della Croce”, chiamata volgarmente di Casaranello. Ubicata nell’antico insediamento romano di Casarano parvum, denominazione riscontrata nei registri di cancelleria Angioina, al fine di distinguerlo dal feudo di Casarano magnum. La chiesa vanta origini antichissime ascrivibili ad una datazione che oscilla tra V -VI secolo. Se la storiografia tradizionale ha ritenuto opportuno una datazione riconducibile alla prima metà del V secolo, secondo i recenti studi, tra cui quello di Falla Castelfranchi (2004), la datazione dovrebbe essere posticipata di un secolo. Oltre alla cupola, dominata da una volta stellata al centro della quale galleggia una croce di tessere d’oro che risponde a istanze di natura squisitamente simbolica e teologica, vi sono dei cicli decorativi risalenti alla fine del X secolo: sull’ultimo pilastro di sinistra della navata centrale, dove è campita una Vergine con Bambino e sul pilastro frontale, l’ultimo a destra, è affrescata Santa Barbara, come ricorda l’iscrizione esegetica. Allo stesso ciclo dovrebbe appartenere il dittico absidale sulla sinistra, di recente identificato, come pure le tracce pittoriche affrescate sui primi due pilastri rivolti verso la navata centrale che raffigurano verosimilmente San Michele, ritratto con le sembianze di archistrategos, mentre stringe il labaro e San Gabriele. In controfacciata infine, sulla sinistra, una santa con il pane, probabilmente Santa Parasceve (Sabato 2011).
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2020
La chiesa di Santa Maria della Croce, a Casaranello, è certamente uno degli edifici paleocristiani presente in Salento e in Italia. Controversa risulta essere la questione delle origini del sacro edificio oggi intitolato a “Santa Maria della Croce”, chiamata volgarmente di Casaranello. Ubicata nell’antico insediamento romano di Casarano parvum, denominazione riscontrata nei registri di cancelleria Angioina, al fine di distinguerlo dal feudo di Casarano magnum. La chiesa vanta origini antichissime ascrivibili ad una datazione che oscilla tra V -VI secolo. Se la storiografia tradizionale ha ritenuto opportuno una datazione riconducibile alla prima metà del V secolo, secondo i recenti studi, tra cui quello di Falla Castelfranchi (2004), la datazione dovrebbe essere posticipata di un secolo. Oltre alla cupola, dominata da una volta stellata al centro della quale galleggia una croce di tessere d’oro che risponde a istanze di natura squisitamente simbolica e teologica, vi sono dei cicli decorativi risalenti alla fine del X secolo: sull’ultimo pilastro di sinistra della navata centrale, dove è campita una Vergine con Bambino e sul pilastro frontale, l’ultimo a destra, è affrescata Santa Barbara, come ricorda l’iscrizione esegetica. Allo stesso ciclo dovrebbe appartenere il dittico absidale sulla sinistra, di recente identificato, come pure le tracce pittoriche affrescate sui primi due pilastri rivolti verso la navata centrale che raffigurano verosimilmente San Michele, ritratto con le sembianze di archistrategos, mentre stringe il labaro e San Gabriele. In controfacciata infine, sulla sinistra, una santa con il pane, probabilmente Santa Parasceve (Sabato 2011).
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2020
LA PITTURA DI MIMMO ANTERI
di Alessio Peluso
Mimmo Anteri è nato a Grottaglie, la città del vino e delle ceramiche, ma vive ed opera a Gallipoli, sul mare e si vede dai soggetti che dipinge. È un pittore splendidamente mediterraneo, uno degli artisti più originali e rappresentativi della cultura salentina e pugliese, con le sue opere apprezzate anche all’estero. Un artista che riesce a esprimere il senso della natura e del suo mistero, della profondità e complessità dei fenomeni dell’universo, ma anche tutto lo spirito della bellezza che c’è nella natura stessa, la danza sognante dei gabbiani, nella loro verticalità, o quella sorta di fazzoletti bianchi e celesti, aquiloni azzurri, puri simboli fatti di infinite velature, o il movimento silenzioso delle sfere, la musica dei pianeti che partoriscono altri mondi. C’è in questa danza della natura la passione, la forza, il dolore, la gioia di vivere, un sentimento di possente religiosità misto alle pulsioni del sogno. Tutto nella sua pittura è simbolico, a partire dai gabbiani, che sono stilizzati, di carta, come quelli che farebbe un bambino, simboli i paesaggi, il mare, i colori, i fili rossi che ogni tanto appaiono in molti dei suoi quadri. Mimmo ha vissuto per oltre trent’anni a Roma dove ha raccolto ampi consensi, dapprima laureandosi presso l’Accademia delle Belle Arti, poi approfondendo i suoi studi ed esperienze alla luce dei movimenti d’avanguardia del tempo: dalla Scuola Romana, alla scuola degli Otto, da Città aperta al Fronte Nuovo al Gruppo di Via Margutta, che ancora esistevano alla fine degli anni Sessanta. Ma i suoi grandi maestri, quelli che costituiscono ancor oggi la sua carpenteria mentale, rimangono Piero della Francesca, con la sua divina proporzione, e tra i moderni, Cezanne, per i sentieri e i contorni d’ombra blu da cui le cose emergono, Moreau, per la funzione creativa del colore che deve essere pensato, sognato, immaginato, Klimt, per il gusto elegante della decorazione, e Kandisky, per quel suono di flauto, violoncello, contrabbasso e organo che mette nei dolenti lamenti del blu.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
Mimmo Anteri è nato a Grottaglie, la città del vino e delle ceramiche, ma vive ed opera a Gallipoli, sul mare e si vede dai soggetti che dipinge. È un pittore splendidamente mediterraneo, uno degli artisti più originali e rappresentativi della cultura salentina e pugliese, con le sue opere apprezzate anche all’estero. Un artista che riesce a esprimere il senso della natura e del suo mistero, della profondità e complessità dei fenomeni dell’universo, ma anche tutto lo spirito della bellezza che c’è nella natura stessa, la danza sognante dei gabbiani, nella loro verticalità, o quella sorta di fazzoletti bianchi e celesti, aquiloni azzurri, puri simboli fatti di infinite velature, o il movimento silenzioso delle sfere, la musica dei pianeti che partoriscono altri mondi. C’è in questa danza della natura la passione, la forza, il dolore, la gioia di vivere, un sentimento di possente religiosità misto alle pulsioni del sogno. Tutto nella sua pittura è simbolico, a partire dai gabbiani, che sono stilizzati, di carta, come quelli che farebbe un bambino, simboli i paesaggi, il mare, i colori, i fili rossi che ogni tanto appaiono in molti dei suoi quadri. Mimmo ha vissuto per oltre trent’anni a Roma dove ha raccolto ampi consensi, dapprima laureandosi presso l’Accademia delle Belle Arti, poi approfondendo i suoi studi ed esperienze alla luce dei movimenti d’avanguardia del tempo: dalla Scuola Romana, alla scuola degli Otto, da Città aperta al Fronte Nuovo al Gruppo di Via Margutta, che ancora esistevano alla fine degli anni Sessanta. Ma i suoi grandi maestri, quelli che costituiscono ancor oggi la sua carpenteria mentale, rimangono Piero della Francesca, con la sua divina proporzione, e tra i moderni, Cezanne, per i sentieri e i contorni d’ombra blu da cui le cose emergono, Moreau, per la funzione creativa del colore che deve essere pensato, sognato, immaginato, Klimt, per il gusto elegante della decorazione, e Kandisky, per quel suono di flauto, violoncello, contrabbasso e organo che mette nei dolenti lamenti del blu.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
IL NOVOLESE BRUNO EPIFANI
di Marcello Ballarin
Bruno Epifani è nato a Novoli nel 1936. Fin da ragazzo ha voluto promuovere nel suo paese attività culturali di vario genere. Per dar fede alla sua idea di giustizia volle insegnare ai ragazzi meno fortunati, in quel ghetto che erano le classi differenziali, convinto che a tutti si debba dare un’opportunità. Si è sempre interessato della letteratura contemporanea e si è laureato con una tesi su Tommaso Fiore. Autore in vita di un solo volume, Epistolario Salentino (Lecce, 1967, Editrice “L’Orsa Maggiore”) e di due volumi postumi, “Una terra d’origine” (Caprarica di Lecce, 1986, “Pensionante de’ Saraceni”) e “Alle radici di Eva” (Lecce 2014, Edizioni Milella). Combattuto tra l’amore passionale per la sua terra, il dolore nel vederla malridotta, la rabbia per la sorte della sua gente e l’anelito a conoscere altri luoghi, ha provato l’insegnamento all’estero, prima al Cairo, nel 1975, poi a Barcellona, nel 1978. Bruno Epifani si inserisce in quella cerchia salentina di cui Bodini è il capofila, accanto ad autori quali Pagano, Moro, Fiore, D’Andrea, Bernardini, Verri e Toma. Nel ’72 è stato tra i vincitori del Premio Salento e nel ’73 del Concorso di poesia “Cultura e azione”. Nel 2015 ha ricevuto il premio alla memoria nell’ambito del Premio Nazionale di poesia “L’arte in versi” a Jesi. È morto prematuramente a Roma, nel 1984 “strapieno di voglia di fare”, come scrisse di lui Antonio Verri.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
Bruno Epifani è nato a Novoli nel 1936. Fin da ragazzo ha voluto promuovere nel suo paese attività culturali di vario genere. Per dar fede alla sua idea di giustizia volle insegnare ai ragazzi meno fortunati, in quel ghetto che erano le classi differenziali, convinto che a tutti si debba dare un’opportunità. Si è sempre interessato della letteratura contemporanea e si è laureato con una tesi su Tommaso Fiore. Autore in vita di un solo volume, Epistolario Salentino (Lecce, 1967, Editrice “L’Orsa Maggiore”) e di due volumi postumi, “Una terra d’origine” (Caprarica di Lecce, 1986, “Pensionante de’ Saraceni”) e “Alle radici di Eva” (Lecce 2014, Edizioni Milella). Combattuto tra l’amore passionale per la sua terra, il dolore nel vederla malridotta, la rabbia per la sorte della sua gente e l’anelito a conoscere altri luoghi, ha provato l’insegnamento all’estero, prima al Cairo, nel 1975, poi a Barcellona, nel 1978. Bruno Epifani si inserisce in quella cerchia salentina di cui Bodini è il capofila, accanto ad autori quali Pagano, Moro, Fiore, D’Andrea, Bernardini, Verri e Toma. Nel ’72 è stato tra i vincitori del Premio Salento e nel ’73 del Concorso di poesia “Cultura e azione”. Nel 2015 ha ricevuto il premio alla memoria nell’ambito del Premio Nazionale di poesia “L’arte in versi” a Jesi. È morto prematuramente a Roma, nel 1984 “strapieno di voglia di fare”, come scrisse di lui Antonio Verri.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
METAMORFOSI DEL BELLO:
STEFANIA RIZZO
di Alessio Peluso
La pittrice Stefania Rizzo nasce in Svizzera, ma dopo pochi anni si trasferisce con la famiglia a Depressa di Tricase. È un artista autodidatta, la cui pittura travolge per l’immediatezza e per la forza dei colori. È una pittrice in grado di armonizzare il connubio tra anima e Natura: luoghi incantati, luoghi dell’Io, luoghi salentini letti con occhi sedotti, rappresentano uno stile inconfondibile. La sua pennellata è uniforme, decisa, gli spazi sono profondi e gli orizzonti infiniti. Attraverso il colore Rizzo trasmette l’intensità del suo stato emozionale che si pone tra l’osservazione del luogo e l’esternazione di sentimenti che cercano ancora soddisfazione o che ne testimoniano l’appagamento. Nell’opera di Rizzo la ricerca dell’immagine interiore da esternare attraverso la pittura sembra una sorta di metamorfosi del bello della vita che, appunto, si trasforma con impressioni di rossi caldi e con quelle di freddi blu e viceversa, ma caratterizzanti sempre da scene di quiete e di silenzio. Sono proprio la quiete e il silenzio i vettori che la elevano ad una poetica di solitudine e liberazione. La solitudine equivale al raccoglimento in sé e alla contestazione del rumore che la realtà produce. Stefania Rizzo è una pittrice introspettiva che ha trovato nell’arte il modo di veicolare i sentimenti umani, riuscendo a plasmarli in immagini di ulivi, di campi, di lune, di visioni accese di luce stellare. Nella sua pittura è facile perdersi e ritrovare il senso più profondo della propria esistenza. Anche il suo Salento, pertanto, nelle visioni di Stefania Rizzo diviene uno stato d’animo che si tramuta in vento o brezza marina, sole rosso e cielo infuocato, entità floreali e spazi inondati da una luce quasi accecante.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2020
La pittrice Stefania Rizzo nasce in Svizzera, ma dopo pochi anni si trasferisce con la famiglia a Depressa di Tricase. È un artista autodidatta, la cui pittura travolge per l’immediatezza e per la forza dei colori. È una pittrice in grado di armonizzare il connubio tra anima e Natura: luoghi incantati, luoghi dell’Io, luoghi salentini letti con occhi sedotti, rappresentano uno stile inconfondibile. La sua pennellata è uniforme, decisa, gli spazi sono profondi e gli orizzonti infiniti. Attraverso il colore Rizzo trasmette l’intensità del suo stato emozionale che si pone tra l’osservazione del luogo e l’esternazione di sentimenti che cercano ancora soddisfazione o che ne testimoniano l’appagamento. Nell’opera di Rizzo la ricerca dell’immagine interiore da esternare attraverso la pittura sembra una sorta di metamorfosi del bello della vita che, appunto, si trasforma con impressioni di rossi caldi e con quelle di freddi blu e viceversa, ma caratterizzanti sempre da scene di quiete e di silenzio. Sono proprio la quiete e il silenzio i vettori che la elevano ad una poetica di solitudine e liberazione. La solitudine equivale al raccoglimento in sé e alla contestazione del rumore che la realtà produce. Stefania Rizzo è una pittrice introspettiva che ha trovato nell’arte il modo di veicolare i sentimenti umani, riuscendo a plasmarli in immagini di ulivi, di campi, di lune, di visioni accese di luce stellare. Nella sua pittura è facile perdersi e ritrovare il senso più profondo della propria esistenza. Anche il suo Salento, pertanto, nelle visioni di Stefania Rizzo diviene uno stato d’animo che si tramuta in vento o brezza marina, sole rosso e cielo infuocato, entità floreali e spazi inondati da una luce quasi accecante.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2020
LA BOTTEGA DEI MIRACOLI
di Vanessa Paladini
La bottega di Carmelo Gallucci è nota come la “bottega dei miracoli”. Una storia antica si racchiude all’interno dei laboratori artigiani del Salento, come la creta che si lavora. Cesare Gallucci (1899 –1980), allievo di Giuseppe Malacore (1876-1947), è stato uno dei maestri cartapestai del ‘900 e ha il merito di aver dato splendore ad un’arte oramai rinomata nella cittadina, prettamente barocca, di Lecce. Il figlio Carmelo ha proseguito la sua attività assieme a Stella Ciardo, prima apprendista e poi socia dell’atelier. Il laboratorio Gallucci oltre ad essere una vera e propria galleria di opere, eccelle per la qualità della realizzazione in argilla di alcune parti anatomiche delle figure. All’interno della Chiesetta della Madonna del Perpetuo Soccorso di Porto Cesareo si può ammirare un Cristo deposto restaurato nel 2003 proprio grazie alle mani esperte del maestro Gallucci e Stella Ciardo. Il procedimento, certamente minuzioso e dai tempi non brevi, ha permesso di ridare un’anima all’opera. Non sfuggono i drappeggi, eseguiti con fuocheggiatura e il corpo di Cristo, prima realizzato con fili di ferro, poi ricoperto di paglia e poi ancora di carta. Sicuramente colpiscono l’espressività del volto di Cristo, i particolari anatomici e gli ancora evidenti segni del calvario. Questa visione è frutto di un sapere locale, tramandato alle generazioni, che non smette di stupire in Italia come in tutto il mondo. Si ricordi, inoltre, che opere della bottega Gallucci sono state esportate anche all’estero come Cina, Chicago e Australia.
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
La bottega di Carmelo Gallucci è nota come la “bottega dei miracoli”. Una storia antica si racchiude all’interno dei laboratori artigiani del Salento, come la creta che si lavora. Cesare Gallucci (1899 –1980), allievo di Giuseppe Malacore (1876-1947), è stato uno dei maestri cartapestai del ‘900 e ha il merito di aver dato splendore ad un’arte oramai rinomata nella cittadina, prettamente barocca, di Lecce. Il figlio Carmelo ha proseguito la sua attività assieme a Stella Ciardo, prima apprendista e poi socia dell’atelier. Il laboratorio Gallucci oltre ad essere una vera e propria galleria di opere, eccelle per la qualità della realizzazione in argilla di alcune parti anatomiche delle figure. All’interno della Chiesetta della Madonna del Perpetuo Soccorso di Porto Cesareo si può ammirare un Cristo deposto restaurato nel 2003 proprio grazie alle mani esperte del maestro Gallucci e Stella Ciardo. Il procedimento, certamente minuzioso e dai tempi non brevi, ha permesso di ridare un’anima all’opera. Non sfuggono i drappeggi, eseguiti con fuocheggiatura e il corpo di Cristo, prima realizzato con fili di ferro, poi ricoperto di paglia e poi ancora di carta. Sicuramente colpiscono l’espressività del volto di Cristo, i particolari anatomici e gli ancora evidenti segni del calvario. Questa visione è frutto di un sapere locale, tramandato alle generazioni, che non smette di stupire in Italia come in tutto il mondo. Si ricordi, inoltre, che opere della bottega Gallucci sono state esportate anche all’estero come Cina, Chicago e Australia.
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
SOMMERGIBILE PIETRO MICCA
di Alessio Peluso
Il sommergibile Pietro Micca, realizzato dai cantieri Franco Tosi di Taranto su progetto dell’ing. Cavallini, Capitano del Genio Navale, fu impostato il 15 ottobre 1931, varato il 31 marzo 1935 e consegnato al IV Gruppo Sommergibili della Regia Marina il 1° ottobre 1935. Costruito con tecniche di avanguardia, aveva a prua e a poppa sei camere lanciasiluri, due cannoni da 120 mm. e 4 mitragliere. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale fu inserito nella 16^ Squadriglia del 1° Gruppo Sommergibili di base a La Spezia. Lungo 90,31 metri e largo 7,70 metri, raggiungeva in navigazione la velocità massima di 15,5 nodi che diventavano 8 nodi in immersione. L’equipaggio era costituito da 72 uomini, compresi 8 ufficiali. Con l’ingresso dell’Italia in guerra, il sommergibile, al comando del capitano di fregata Vittorio Mogherini, era già in missione nella notte del 12 giugno 1940 con l’incarico di porre 40 mine innanzi al porto di Alessandria d’Egitto. Il 24 luglio 1943 il Micca salpò da Taranto diretto a Napoli. Al largo di Capo Spartivento Calabro, a causa di un’improvvisa avaria al sistema di zavorramento che gli impediva di immergersi, dovette invertire la rotta per rientrare a Taranto. Avrebbe dovuto incontrarsi al largo di Santa Maria di Leuca con la nave appoggio Bormio che doveva scortarlo. Ma fu intercettato da un sommergibile nemico. Alle ore 06,05 del 29 luglio, al largo di Punta Ristola, i pescatori di Leuca sentirono un forte boato. Il sommergibile inglese Trooper, al comando del tenente di vascello John Somerton Wraith, aveva lanciato una sventagliata di sei siluri colpendo il Micca al centro dello scafo. Il sommergibile si spaccò in due parti ed affondò in pochi minuti a tre miglia dal faro di Santa Maria di Leuca. Dell’equipaggio, composto da 72 uomini, sopravvissero solo 18 persone, tra cui il comandante Scrobogna. Il relitto del Micca venne individuato nel 1994 dagli istruttori Luciano De Donno e Giuseppe Affinito del Centro di Attività Subacquee di Lecce. Filmarono per la prima volta i resti del sommergibile che giaceva ad una profondità tra gli 85 e i 90 metri e a 2,6 miglia da Punta Ristola. Il sito è considerato Sacrario Militare.
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
Il sommergibile Pietro Micca, realizzato dai cantieri Franco Tosi di Taranto su progetto dell’ing. Cavallini, Capitano del Genio Navale, fu impostato il 15 ottobre 1931, varato il 31 marzo 1935 e consegnato al IV Gruppo Sommergibili della Regia Marina il 1° ottobre 1935. Costruito con tecniche di avanguardia, aveva a prua e a poppa sei camere lanciasiluri, due cannoni da 120 mm. e 4 mitragliere. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale fu inserito nella 16^ Squadriglia del 1° Gruppo Sommergibili di base a La Spezia. Lungo 90,31 metri e largo 7,70 metri, raggiungeva in navigazione la velocità massima di 15,5 nodi che diventavano 8 nodi in immersione. L’equipaggio era costituito da 72 uomini, compresi 8 ufficiali. Con l’ingresso dell’Italia in guerra, il sommergibile, al comando del capitano di fregata Vittorio Mogherini, era già in missione nella notte del 12 giugno 1940 con l’incarico di porre 40 mine innanzi al porto di Alessandria d’Egitto. Il 24 luglio 1943 il Micca salpò da Taranto diretto a Napoli. Al largo di Capo Spartivento Calabro, a causa di un’improvvisa avaria al sistema di zavorramento che gli impediva di immergersi, dovette invertire la rotta per rientrare a Taranto. Avrebbe dovuto incontrarsi al largo di Santa Maria di Leuca con la nave appoggio Bormio che doveva scortarlo. Ma fu intercettato da un sommergibile nemico. Alle ore 06,05 del 29 luglio, al largo di Punta Ristola, i pescatori di Leuca sentirono un forte boato. Il sommergibile inglese Trooper, al comando del tenente di vascello John Somerton Wraith, aveva lanciato una sventagliata di sei siluri colpendo il Micca al centro dello scafo. Il sommergibile si spaccò in due parti ed affondò in pochi minuti a tre miglia dal faro di Santa Maria di Leuca. Dell’equipaggio, composto da 72 uomini, sopravvissero solo 18 persone, tra cui il comandante Scrobogna. Il relitto del Micca venne individuato nel 1994 dagli istruttori Luciano De Donno e Giuseppe Affinito del Centro di Attività Subacquee di Lecce. Filmarono per la prima volta i resti del sommergibile che giaceva ad una profondità tra gli 85 e i 90 metri e a 2,6 miglia da Punta Ristola. Il sito è considerato Sacrario Militare.
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
RITA DE MATTEIS:
TESSITURA OLD STYLE
di Alessio Peluso
Secondo un’antica usanza molto diffusa nel Salento, un matrimonio era definitivamente approvato solo se la suocera fosse rimasta soddisfatta delle abilità mostrate dalla sposa sia nell’arte del ricamo, sia nella pratica del tessere. Pizzi, orli, coperte e ricami, la mostravano come una promettente donna di casa. Le tecniche tradizionali del ricamo, anche se a livello prettamente artigianale e locale, sono tuttora conosciute e utilizzate per la produzione di preziosi manufatti. Pochissime, difatti, conoscono il metodo antico di tessitura e spesso si tratta di persone molto anziane. Tuttavia, in questo scenario di triste declino, c’è ancora una giovane donna che con passione continua a tessere utilizzando le tecniche tradizionali: Anna Rita De Matteis, è nata a Casarano nel 1983, ma vive a Galatone, dov’è sposata. Ha frequentato l’Istituto d’Arte “A. Giannelli” di Parabita diplomandosi in “Arte applicata alla tessitura artigianale, industriale e stampa su tessuto”. Nella sua stanza di lavoro sono custoditi gli antichi attrezzi che un tempo erano utilizzati per la preparazione dei fili e dell’ordito, nonché per la tessitura vera e propria, ossia il “tornio della bambagia” adoperato per separare il cotone dai semi; un fuso, usato per filare le masse grezze di cotone, lino e lana; una “macènnula”, ovvero un arcolaio impiegato per comporre l’ordito filo dopo filo e, infine, un vecchio “talàru”, il telaio, in legno d’ulivo. Nella tessitura Anna Rita mostra di possedere un talento innato ed è una delle più giovani maestre di telaio in Italia. Tale primato, è stato accreditato in Terra d’Otranto, terra d’origine dell’antica tecnica di tessitura detta del “fiocco” salentino; tecnica che Anna Rita è ormai tra le poche a saper eseguire correttamente. Si tratta del cosiddetto “soprariccio”, cioè di un punto a rialzo col quale le figure create appaiono in rilievo. In tal modo la giovane maestra di Galàtone crea coperte, tovaglie, copricuscino, borse e manufatti vari dal cui tessuto di fondo emergono scene di vita quotidiana, motivi floreali e geometrici, immagini sacre. Il tutto rielaborato secondo una chiave artistica del tutto personale.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2020
Secondo un’antica usanza molto diffusa nel Salento, un matrimonio era definitivamente approvato solo se la suocera fosse rimasta soddisfatta delle abilità mostrate dalla sposa sia nell’arte del ricamo, sia nella pratica del tessere. Pizzi, orli, coperte e ricami, la mostravano come una promettente donna di casa. Le tecniche tradizionali del ricamo, anche se a livello prettamente artigianale e locale, sono tuttora conosciute e utilizzate per la produzione di preziosi manufatti. Pochissime, difatti, conoscono il metodo antico di tessitura e spesso si tratta di persone molto anziane. Tuttavia, in questo scenario di triste declino, c’è ancora una giovane donna che con passione continua a tessere utilizzando le tecniche tradizionali: Anna Rita De Matteis, è nata a Casarano nel 1983, ma vive a Galatone, dov’è sposata. Ha frequentato l’Istituto d’Arte “A. Giannelli” di Parabita diplomandosi in “Arte applicata alla tessitura artigianale, industriale e stampa su tessuto”. Nella sua stanza di lavoro sono custoditi gli antichi attrezzi che un tempo erano utilizzati per la preparazione dei fili e dell’ordito, nonché per la tessitura vera e propria, ossia il “tornio della bambagia” adoperato per separare il cotone dai semi; un fuso, usato per filare le masse grezze di cotone, lino e lana; una “macènnula”, ovvero un arcolaio impiegato per comporre l’ordito filo dopo filo e, infine, un vecchio “talàru”, il telaio, in legno d’ulivo. Nella tessitura Anna Rita mostra di possedere un talento innato ed è una delle più giovani maestre di telaio in Italia. Tale primato, è stato accreditato in Terra d’Otranto, terra d’origine dell’antica tecnica di tessitura detta del “fiocco” salentino; tecnica che Anna Rita è ormai tra le poche a saper eseguire correttamente. Si tratta del cosiddetto “soprariccio”, cioè di un punto a rialzo col quale le figure create appaiono in rilievo. In tal modo la giovane maestra di Galàtone crea coperte, tovaglie, copricuscino, borse e manufatti vari dal cui tessuto di fondo emergono scene di vita quotidiana, motivi floreali e geometrici, immagini sacre. Il tutto rielaborato secondo una chiave artistica del tutto personale.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2020
ANTICO SARCOFAGO A
TORRE CHIANCA
di Giuseppe Gorbelli
Non solo danni e distruzione. Il maltempo che ha imperversato con violenza su Porto Cesareo tra il 12 e il 13 novembre, riporta alla luce un antico sarcofago con resti umani, nella zona di Torre Chianca, tra gli stabilimenti balneari Tabù e Goa. Ad accorgersi per primi dell’accaduto un gruppo di surfisti, attirati dal forte vento che spirava in quei giorni. Sono intervenute successivamente le forze dell’ordine, protezione civile ed esperti di archeologia. A tal proposito interessante risulta l’intervento di Rita Auriemma, docente di archeologia subacquea presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento: “Non si tratta di una scoperta per gli archeologi, il sito era già noto da tempo. Si tratta di un patrimonio di eccezionale interesse. È ben noto il relitto delle colonne, con 5 colonne lunghe 9 metri di marmo greco, destinate forse ai grandi monumenti dell’urbe, ma anche altri sono particolarmente significativi”. La necropoli di Torre Chianca, risalente ad età romana imperiale, e le altre realtà presenti lungo la fascia costiera, databili da età protostorica a età medievale, così come la parte sommersa dell’insediamento protostorico di Scalo di Furno, i vari relitti e rinvenimenti isolati, costituiscono il ricchissimo patrimonio costiero e subacqueo di questo tratto di mare, più volte oggetto di indagini da parte del gruppo di Archeologia. Ora dopo la segnalazione al Ministero dei Beni Culturali, si lavora per la messa in sicurezza dell’intera aerea.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2020
Non solo danni e distruzione. Il maltempo che ha imperversato con violenza su Porto Cesareo tra il 12 e il 13 novembre, riporta alla luce un antico sarcofago con resti umani, nella zona di Torre Chianca, tra gli stabilimenti balneari Tabù e Goa. Ad accorgersi per primi dell’accaduto un gruppo di surfisti, attirati dal forte vento che spirava in quei giorni. Sono intervenute successivamente le forze dell’ordine, protezione civile ed esperti di archeologia. A tal proposito interessante risulta l’intervento di Rita Auriemma, docente di archeologia subacquea presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento: “Non si tratta di una scoperta per gli archeologi, il sito era già noto da tempo. Si tratta di un patrimonio di eccezionale interesse. È ben noto il relitto delle colonne, con 5 colonne lunghe 9 metri di marmo greco, destinate forse ai grandi monumenti dell’urbe, ma anche altri sono particolarmente significativi”. La necropoli di Torre Chianca, risalente ad età romana imperiale, e le altre realtà presenti lungo la fascia costiera, databili da età protostorica a età medievale, così come la parte sommersa dell’insediamento protostorico di Scalo di Furno, i vari relitti e rinvenimenti isolati, costituiscono il ricchissimo patrimonio costiero e subacqueo di questo tratto di mare, più volte oggetto di indagini da parte del gruppo di Archeologia. Ora dopo la segnalazione al Ministero dei Beni Culturali, si lavora per la messa in sicurezza dell’intera aerea.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2020
LA VERGINE DI MUSSNER
di Vanessa Paladini
Giacomo Vincenzo Mussner di Ortisei è uno scultore della seconda metà del XX secolo. Della sua firma si ha traccia anche nella Parrocchia della “Beata Vergine Maria del Perpetuo Soccorso” di Porto Cesareo. Di sua mano è una bellissima Vergine Maria, in preghiera, con lo sguardo rivolto al cielo e con un rosario posto sull’avambraccio. Il velo che copre la Vergine, dal bordo riccamente decorato, è di un azzurro accuratamente studiato, richiamo cromatico alla sua figura. In vita invece si può notare la presenza di una cinta pervasa da stelle. Iconograficamente forte è l’affinità con “La Nostra Signora di Fatima” e al racconto delle sue apparizioni ai tre giovani pastorelli. Il messaggio di Fatima può essere riassunto principalmente come un invito alla preghiera ed è lo stesso che si coglie guardando il rosario che accompagna la scultura lignea in questione. La famiglia Mussner opera nel settore artistico dal 1892, quando il fondatore Giacomo Mussner (1866-1932) decide di realizzare lavori prevalentemente di stile classico e gotico. La bottega si tramanda di padre in figlio ed è attualmente capeggiata da Vincenzo Giacomo Mussner. Le opere sono pura Ars Sacra: sculture, statue, altari, arredi liturgici, ma anche restauri sono i capisaldi dei Mussner. Dal bronzo, al marmo si alternano i materiali utilizzati. Numerosi sono i premi e i riconoscimenti ottenuti nell’arco degli anni. Nel 1981 Papa Giovanni Paolo II dona una statua della Madonna di Fatima creata da Vincenzo Giacomo Mussner al missionario con più anni di servizio attivo. Ancora Papa Giovanni Paolo II benedice ed incorona la statua di Maria di Nazareth scolpita da Gregor Mussner nel 1998 per il “Peregrinatio Mariae mondiale”.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2019
Giacomo Vincenzo Mussner di Ortisei è uno scultore della seconda metà del XX secolo. Della sua firma si ha traccia anche nella Parrocchia della “Beata Vergine Maria del Perpetuo Soccorso” di Porto Cesareo. Di sua mano è una bellissima Vergine Maria, in preghiera, con lo sguardo rivolto al cielo e con un rosario posto sull’avambraccio. Il velo che copre la Vergine, dal bordo riccamente decorato, è di un azzurro accuratamente studiato, richiamo cromatico alla sua figura. In vita invece si può notare la presenza di una cinta pervasa da stelle. Iconograficamente forte è l’affinità con “La Nostra Signora di Fatima” e al racconto delle sue apparizioni ai tre giovani pastorelli. Il messaggio di Fatima può essere riassunto principalmente come un invito alla preghiera ed è lo stesso che si coglie guardando il rosario che accompagna la scultura lignea in questione. La famiglia Mussner opera nel settore artistico dal 1892, quando il fondatore Giacomo Mussner (1866-1932) decide di realizzare lavori prevalentemente di stile classico e gotico. La bottega si tramanda di padre in figlio ed è attualmente capeggiata da Vincenzo Giacomo Mussner. Le opere sono pura Ars Sacra: sculture, statue, altari, arredi liturgici, ma anche restauri sono i capisaldi dei Mussner. Dal bronzo, al marmo si alternano i materiali utilizzati. Numerosi sono i premi e i riconoscimenti ottenuti nell’arco degli anni. Nel 1981 Papa Giovanni Paolo II dona una statua della Madonna di Fatima creata da Vincenzo Giacomo Mussner al missionario con più anni di servizio attivo. Ancora Papa Giovanni Paolo II benedice ed incorona la statua di Maria di Nazareth scolpita da Gregor Mussner nel 1998 per il “Peregrinatio Mariae mondiale”.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2019
STATUA DEL PESCATORE
di Alessio Peluso
Un uomo stanco e provato dal suo lavoro, così come testimoniano i vestiti trasandati, gli zoccoli che trascinano le gambe, mentre le braccia e le spalle sostengono la nassa, un antico strumento di pesca. Lo sguardo volge all’orizzonte pensando alla bellezza del mare, all’orgoglio di un’altra giornata lavorativa portata al termine e al pensiero che quel sacrificio servirà per sfamare la famiglia, la propria donna, i figli. Il sogno di una vita però, in alcuni casi si è scontrato con la dura realtà e in tanti nella nostra Porto Cesareo sono ricordati nel piazzale dello “Scalo d’Alaggio”, con la “Statua del Pescatore”; una dedica speciale per chi ha perso la vita nelle profondità del mare, che ha spazzato via ogni speranza e desiderio di rivedere i propri cari. È il 1999 quando Pasquale De Monte, sindaco di Porto Cesareo nel triennio 1997-2000 e Giuseppe Fanizza, al tempo Assessore alla Pesca e Strutture Portuali, condividono un’idea che ben presto si tramuta in un obiettivo da raggiungere: onorare al meglio la figura di coloro che rappresentano nel nostro paese la categoria per eccellenza e tradizione, ovvero il pescatore. L’artista incaricato di realizzare l’opera è Celestino De Gabriele, noto scultore di Veglie che ricalcando le orme del pescatore degli anni ’50 – 60’ realizza un’opera completamente in bronzo di pregevole fattura. Un vero fiore all’occhiello che dà rilevanza allo “Scalo d’Alaggio” già dal 2000, anche se per la manifestazione di intitolazione ufficiale, bisognerà attendere il 24 giugno 2007, con sindaco Vito Foscarini e alla presenza dello stesso Giuseppe Fanizza, attualmente Presidente della Cooperativa “Pescatori dello Jonio” che intercettato dalla nostra redazione, volge un pensiero romantico e allo stesso tempo nostalgico, alla figura del pescatore: “Il mare e la pesca hanno contraddistinto la mia vita sin dall’infanzia. Ricordo il sacrificio e le difficoltà di quel tempo, in cui gli unici strumenti erano la barca a vela o a remi. La forza delle braccia era cruciale per ognuno di noi, così come la capacità di orientarsi nel mare, facendo riferimento a chiese, grossi alberi o antiche masserie. Oggi il mio pensiero va a tutti quei ragazzi che hanno lasciato la vita, sperando che noi più grandi saremo in grado di trasmettere ai più giovani la passione per la pesca e il rispetto per quel meraviglioso dono chiamato mare”. Qui di seguito quanto riportato sulla targhetta commemorativa:
Un uomo stanco e provato dal suo lavoro, così come testimoniano i vestiti trasandati, gli zoccoli che trascinano le gambe, mentre le braccia e le spalle sostengono la nassa, un antico strumento di pesca. Lo sguardo volge all’orizzonte pensando alla bellezza del mare, all’orgoglio di un’altra giornata lavorativa portata al termine e al pensiero che quel sacrificio servirà per sfamare la famiglia, la propria donna, i figli. Il sogno di una vita però, in alcuni casi si è scontrato con la dura realtà e in tanti nella nostra Porto Cesareo sono ricordati nel piazzale dello “Scalo d’Alaggio”, con la “Statua del Pescatore”; una dedica speciale per chi ha perso la vita nelle profondità del mare, che ha spazzato via ogni speranza e desiderio di rivedere i propri cari. È il 1999 quando Pasquale De Monte, sindaco di Porto Cesareo nel triennio 1997-2000 e Giuseppe Fanizza, al tempo Assessore alla Pesca e Strutture Portuali, condividono un’idea che ben presto si tramuta in un obiettivo da raggiungere: onorare al meglio la figura di coloro che rappresentano nel nostro paese la categoria per eccellenza e tradizione, ovvero il pescatore. L’artista incaricato di realizzare l’opera è Celestino De Gabriele, noto scultore di Veglie che ricalcando le orme del pescatore degli anni ’50 – 60’ realizza un’opera completamente in bronzo di pregevole fattura. Un vero fiore all’occhiello che dà rilevanza allo “Scalo d’Alaggio” già dal 2000, anche se per la manifestazione di intitolazione ufficiale, bisognerà attendere il 24 giugno 2007, con sindaco Vito Foscarini e alla presenza dello stesso Giuseppe Fanizza, attualmente Presidente della Cooperativa “Pescatori dello Jonio” che intercettato dalla nostra redazione, volge un pensiero romantico e allo stesso tempo nostalgico, alla figura del pescatore: “Il mare e la pesca hanno contraddistinto la mia vita sin dall’infanzia. Ricordo il sacrificio e le difficoltà di quel tempo, in cui gli unici strumenti erano la barca a vela o a remi. La forza delle braccia era cruciale per ognuno di noi, così come la capacità di orientarsi nel mare, facendo riferimento a chiese, grossi alberi o antiche masserie. Oggi il mio pensiero va a tutti quei ragazzi che hanno lasciato la vita, sperando che noi più grandi saremo in grado di trasmettere ai più giovani la passione per la pesca e il rispetto per quel meraviglioso dono chiamato mare”. Qui di seguito quanto riportato sulla targhetta commemorativa:
Porto Cesareo rende omaggio
alla gente di mare che per prima popolò Cesarea e alla memoria di coloro che operando in mare non tornarono dei pochi ancora vivi nel ricordo … Cazzella Domenico di anni 10 Cazzella Enrico di anni 24 Indirli Antonio di anni 16 Peluso Giuseppe fu Fr.sco di anni 10 Peluso Giuseppe fu Rocco di anni 31 Rizzello Cos. Damiano di anni 32 + 09.04.1926 Rizzello Giovanni + 23/04/1940 Colelli Antonio di anni 54 Iaconisi Cosimo di anni 13 + 18.07.1945 Vittorio De Pace palombaro + 30.08.1962 … e dei molti che non lasciarono traccia rimasti ignoti nel buio dei secoli il Comune pose addì 24.06.07 |
PREGHIERA DEL MARINAIO
di Antonio Fogazzaro «A Te, o grande eterno Iddio, Signore del cielo e dell'abisso, cui obbediscono i venti e le onde, noi, uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d'Italia, da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori. Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione. Dà giusta gloria e potenza alla nostra bandiera, comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei; poni sul nemico il terrore di lei; fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro, più forti del ferro che cinge questa nave, a lei per sempre dona vittoria. Benedici , o Signore, le nostre case lontane, le care genti. Benedici nella cadente notte il riposo del popolo, benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare. Benedici!» PUBBLICATO NEL GIUGNO 2019 |
PORTO CESAREO:
STORIA DEL CROCIFISSO
di Alessio Peluso
Entrando all’interno della parrocchia “Beata Vergine Maria del Perpetuo Soccorso” di Porto Cesareo, si è inevitabilmente attratti da un altare, dal quale spicca un crocefisso in legno, opera da considerarsi pregevole e di valore per la sua datazione storica. Esperti dell’Ispettorato di Bari hanno collocato quest’opera tra il 1300 e il 1400. Il suo ritrovamento nel convento di Casole, a Copertino, è stato seguito dal trasferimento alla Chiesa dei Cappuccini e infine tra i Padri Domenicani, oggi identificabili nella parrocchia del S.S. Rosario. Il parroco del tempo Mons. Salvatore Nestola, ne fece dono a Don Lorenzo Marzio Strafella. Lo stato del crocifisso al momento della donazione era compassionevole: un’enorme quantità di stucco copriva completamente l’immagine del Cristo, dal volto alle mani, fino ai piedi; sulla testa una corona di spine, su una folta chioma fatta di canapa che scendeva sulle spalle, mentre lo stucco era stato contaminato con il passare del tempo, da vernici che hanno rischiato di rovinarne l’opera. Fortunatamente Don Marzio Strafella s’incaricò della restaurazione, come la vediamo oggi; la croce però fu cambiata in quanto non era più in grado di sostenere il peso. Nell’immagine si può notare il crocefisso in tutta la sua bellezza artistica.
Fonte: “Storia delle Chiese in Porto Cesareo”, a cura di Antonio Alberti
PUBBLICATO NELL'APRILE 2019
Entrando all’interno della parrocchia “Beata Vergine Maria del Perpetuo Soccorso” di Porto Cesareo, si è inevitabilmente attratti da un altare, dal quale spicca un crocefisso in legno, opera da considerarsi pregevole e di valore per la sua datazione storica. Esperti dell’Ispettorato di Bari hanno collocato quest’opera tra il 1300 e il 1400. Il suo ritrovamento nel convento di Casole, a Copertino, è stato seguito dal trasferimento alla Chiesa dei Cappuccini e infine tra i Padri Domenicani, oggi identificabili nella parrocchia del S.S. Rosario. Il parroco del tempo Mons. Salvatore Nestola, ne fece dono a Don Lorenzo Marzio Strafella. Lo stato del crocifisso al momento della donazione era compassionevole: un’enorme quantità di stucco copriva completamente l’immagine del Cristo, dal volto alle mani, fino ai piedi; sulla testa una corona di spine, su una folta chioma fatta di canapa che scendeva sulle spalle, mentre lo stucco era stato contaminato con il passare del tempo, da vernici che hanno rischiato di rovinarne l’opera. Fortunatamente Don Marzio Strafella s’incaricò della restaurazione, come la vediamo oggi; la croce però fu cambiata in quanto non era più in grado di sostenere il peso. Nell’immagine si può notare il crocefisso in tutta la sua bellezza artistica.
Fonte: “Storia delle Chiese in Porto Cesareo”, a cura di Antonio Alberti
PUBBLICATO NELL'APRILE 2019