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Tante le prelibatezze, i sapori e i colori della gastronomia salentina che meritano di essere raccontati. TERRA "NOSCIA" è lo spazio dedicato all'approfondimento dei prodotti della nostra terra, da sempre simbolo di culture e storie antiche che si intrecciano con una bontà culinaria che non ha eguali.
UOVA & FANTASIA:
LA FRITTATA
di Massimo Peluso
Piatto imprevedibile, dal gusto salato o dolce, a volte piccante, la frittata è a pieno diritto un prodotto della cucina del Salento. Tanti uomini di cultura o chef hanno scritto e parlato di un prodotto che non ha una definizione precisa, né un posto preciso durante i pranzi o le cene, ma su un aspetto non transige: la presenza delle uova, immancabili per poter pronunciare la frase magica: "La frittata è pronta!". E la solita risposta: " Con cosa l'hai preparata?". Da non tralasciare un particolare: nella preparazione le uova vanno sbattute o frullate per mischiare l'albume con il tuorlo e la cottura va fatta rivoltando la frittata da entrambe le parti. Tutto ciò per non confonderla con tante sue varianti, come l'omelette francese o la frittata strapazzata che gli inglesi servono a colazione. La storia di questo piatto è poco chiara: c'è chi lo attribuisce agli italiani ma, più verosimilmente, l’invenzione e l’importazione sono opera degli arabi, i quali certamente hanno influenzato non poco, la nostra cucina. Si narra che la prima frittata preparata da essi, fosse a base di pesce fritto e da qui il nome che conosciamo oggi, derivante dal latino "frixura", cioè "fritto". Dal punto di vista nutrizionale, la frittata non è proprio adatta alle diete e ben se ne capisce il motivo, mentre grazie alle uova dà un buon apporto di proteine, vitamine e sali minerali, oltre ai nutrienti dei vari prodotti aggiunti come le verdure. Difficile stabilire quale sia la frittata per eccellenza, forse solo quella a base di uova, pepe, menta e formaggio ma, possiamo citarne altre altrettanto famose come quella con la pasta, con le zucchine, con le cipolle o con il riso. Proprio in omaggio al nostro territorio, vediamo come prepararne una buonissima con i fiori di zucchina: innanzitutto sbattere cinque uova aggiungendo sale, pepe, una manciata di pan grattato, abbondante formaggio e qualche cucchiaio di olio extravergine d'oliva. A parte, lavare e bollire solo pochi minuti i fiori di zucchina in acqua salata per poi aggiungerli al composto. A questo punto, cuocere in padella antiaderente con il fondo d'olio per circa un quarto d'ora a fuoco lento e procedere al ribaltamento del preparato. Dopo altri venti minuti, avremo la nostra frittata ai fiori di zucchina: una vera delizia per i palati più fini, ma con un occhio alla tradizione salentina.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
Piatto imprevedibile, dal gusto salato o dolce, a volte piccante, la frittata è a pieno diritto un prodotto della cucina del Salento. Tanti uomini di cultura o chef hanno scritto e parlato di un prodotto che non ha una definizione precisa, né un posto preciso durante i pranzi o le cene, ma su un aspetto non transige: la presenza delle uova, immancabili per poter pronunciare la frase magica: "La frittata è pronta!". E la solita risposta: " Con cosa l'hai preparata?". Da non tralasciare un particolare: nella preparazione le uova vanno sbattute o frullate per mischiare l'albume con il tuorlo e la cottura va fatta rivoltando la frittata da entrambe le parti. Tutto ciò per non confonderla con tante sue varianti, come l'omelette francese o la frittata strapazzata che gli inglesi servono a colazione. La storia di questo piatto è poco chiara: c'è chi lo attribuisce agli italiani ma, più verosimilmente, l’invenzione e l’importazione sono opera degli arabi, i quali certamente hanno influenzato non poco, la nostra cucina. Si narra che la prima frittata preparata da essi, fosse a base di pesce fritto e da qui il nome che conosciamo oggi, derivante dal latino "frixura", cioè "fritto". Dal punto di vista nutrizionale, la frittata non è proprio adatta alle diete e ben se ne capisce il motivo, mentre grazie alle uova dà un buon apporto di proteine, vitamine e sali minerali, oltre ai nutrienti dei vari prodotti aggiunti come le verdure. Difficile stabilire quale sia la frittata per eccellenza, forse solo quella a base di uova, pepe, menta e formaggio ma, possiamo citarne altre altrettanto famose come quella con la pasta, con le zucchine, con le cipolle o con il riso. Proprio in omaggio al nostro territorio, vediamo come prepararne una buonissima con i fiori di zucchina: innanzitutto sbattere cinque uova aggiungendo sale, pepe, una manciata di pan grattato, abbondante formaggio e qualche cucchiaio di olio extravergine d'oliva. A parte, lavare e bollire solo pochi minuti i fiori di zucchina in acqua salata per poi aggiungerli al composto. A questo punto, cuocere in padella antiaderente con il fondo d'olio per circa un quarto d'ora a fuoco lento e procedere al ribaltamento del preparato. Dopo altri venti minuti, avremo la nostra frittata ai fiori di zucchina: una vera delizia per i palati più fini, ma con un occhio alla tradizione salentina.
PUBBLICATO NEL MARZO 2021
CIME DI RAPA
di Massimo Peluso
Parenti del broccolo e tipiche del centro - sud Italia, le “cime di rapa” ricoprono da sempre un ruolo di primo piano nelle nostre tavole invernali. Facente parte della famiglia delle Brassicaceae, la produzione italiana di questo ortaggio è massiccia e grazie alla presenza di specie precoci e tardive, la possiamo trovare sui banchi ortofrutticoli per buona parte dell’anno: addirittura la Puglia produce più di un terzo del fabbisogno nazionale, ma anche negli Usa ed in Australia apprezzano e coltivano questo fantastico prodotto della nostra terra. Bisogna però rimarcare che le cime di rapa hanno molto probabilmente origini orientali e si narra che i primi esportatori furono i navigatori genovesi, i quali gradirono non poco il gusto deciso ed al tempo stesso un po' amarognolo di esse e che furono i francesi coloro che le inserirono, poi stabilmente, nella loro cucina tradizionale. Dal punto di vista organolettico, come è lecito pensare, le rape sono formate per il 90% da acqua, ma forniscono anche molte vitamine del tipo A e B, sali minerali come ferro e calcio ed antiossidanti che le rendono utili contro l’invecchiamento ed aiutano il sistema immunitario, occhi e pelle. Tornando ai fornelli, il nostro ortaggio trova vari impieghi: lesso, con le orecchiette o come si è soliti nel Salento stufato. Anzi per dirla alla dialettale maniera "cime di rapa 'nfucate", una vera specialità del leccese che le massaie sanno preparare alla perfezione. Come? Separando le cime di rapa, ossia l’infiorescenza non ancora sbocciata e le foglie più tenere, mettendole in ammollo in acqua ed inserendole successivamente in una pentola con olio extravergine d'oliva abbondante che soffrigge con due spicchi d'aglio e peperoncino. A questo punto aggiungere acqua quanto basta, salare e lasciarle appassire coperte ('nfucate), ma eliminando, se presente, l’acqua in eccesso. Il risultato è sempre garantito, per un piatto che sia come contorno, sia come accompagnamento alle carni o ad una puccia con le olive nere, rende l’inverno più caldo e piacevole.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
Parenti del broccolo e tipiche del centro - sud Italia, le “cime di rapa” ricoprono da sempre un ruolo di primo piano nelle nostre tavole invernali. Facente parte della famiglia delle Brassicaceae, la produzione italiana di questo ortaggio è massiccia e grazie alla presenza di specie precoci e tardive, la possiamo trovare sui banchi ortofrutticoli per buona parte dell’anno: addirittura la Puglia produce più di un terzo del fabbisogno nazionale, ma anche negli Usa ed in Australia apprezzano e coltivano questo fantastico prodotto della nostra terra. Bisogna però rimarcare che le cime di rapa hanno molto probabilmente origini orientali e si narra che i primi esportatori furono i navigatori genovesi, i quali gradirono non poco il gusto deciso ed al tempo stesso un po' amarognolo di esse e che furono i francesi coloro che le inserirono, poi stabilmente, nella loro cucina tradizionale. Dal punto di vista organolettico, come è lecito pensare, le rape sono formate per il 90% da acqua, ma forniscono anche molte vitamine del tipo A e B, sali minerali come ferro e calcio ed antiossidanti che le rendono utili contro l’invecchiamento ed aiutano il sistema immunitario, occhi e pelle. Tornando ai fornelli, il nostro ortaggio trova vari impieghi: lesso, con le orecchiette o come si è soliti nel Salento stufato. Anzi per dirla alla dialettale maniera "cime di rapa 'nfucate", una vera specialità del leccese che le massaie sanno preparare alla perfezione. Come? Separando le cime di rapa, ossia l’infiorescenza non ancora sbocciata e le foglie più tenere, mettendole in ammollo in acqua ed inserendole successivamente in una pentola con olio extravergine d'oliva abbondante che soffrigge con due spicchi d'aglio e peperoncino. A questo punto aggiungere acqua quanto basta, salare e lasciarle appassire coperte ('nfucate), ma eliminando, se presente, l’acqua in eccesso. Il risultato è sempre garantito, per un piatto che sia come contorno, sia come accompagnamento alle carni o ad una puccia con le olive nere, rende l’inverno più caldo e piacevole.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2021
IL CAFFE'
di Massimo Peluso
"Posso offrirti un caffè?" oppure "Preparo il caffè?". Chissà quante volte le abbiamo proferite queste parole o ce le siamo sentite dire: ebbene, parlare di caffè vuol dire parlare dell’italianità nel mondo, nonostante sia una bevanda non originaria del bel Paese e scoperta in Africa, molto probabilmente in Etiopia intorno al X secolo. La leggenda ci racconta di un pastore, il quale portando spesso a pascolare il gregge tra gli alberi di Coffea, nome della pianta da cui si ricavano i chicchi di caffè, si accorse di come gli animali trovavano vitalità dalle foglie dell’arbusto e da qui partì la coltivazione domestica del caffè, che addobbava verande e giardini. Successivamente, grazie agli egiziani, la bevanda a base di caffè si diffuse in tutto il Medio Oriente, facilitato anche dal divieto islamico sulle bevande alcoliche. Infatti, la diffusione dell’islamismo da lì in poi sarà la fortuna di questa bevanda che approderà intorno al XVII secolo in Europa, utilizzata anche in ambito medico. Bisogna ricordare le divergenze religiose legate al caffè: le autorità religiose musulmane o i monaci sufi lo utilizzavano durante i riti religiosi; quelle cristiane definivano il "vino d' Arabia" come la "bevanda del diavolo". Oggi ovviamente, il caffè è parte irrinunciabile della vita quotidiana dell’italiano medio, bevuto al bar o fatto alla moka poco cambia, se non dal punto di vista della cremosità e della consistenza dell'aroma. Certo che per bere un buon caffè è necessario avere a disposizione una buona miscela e seguire alcune regole, come non lavare la moka con il detersivo o non riempirla oltre la valvola di sicurezza. Il resto sta nel gustare a fondo una bella tazzina di caffè, magari in buona compagnia e sfruttare così a pieno le proprietà tonificanti del caffè all' italiana.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
"Posso offrirti un caffè?" oppure "Preparo il caffè?". Chissà quante volte le abbiamo proferite queste parole o ce le siamo sentite dire: ebbene, parlare di caffè vuol dire parlare dell’italianità nel mondo, nonostante sia una bevanda non originaria del bel Paese e scoperta in Africa, molto probabilmente in Etiopia intorno al X secolo. La leggenda ci racconta di un pastore, il quale portando spesso a pascolare il gregge tra gli alberi di Coffea, nome della pianta da cui si ricavano i chicchi di caffè, si accorse di come gli animali trovavano vitalità dalle foglie dell’arbusto e da qui partì la coltivazione domestica del caffè, che addobbava verande e giardini. Successivamente, grazie agli egiziani, la bevanda a base di caffè si diffuse in tutto il Medio Oriente, facilitato anche dal divieto islamico sulle bevande alcoliche. Infatti, la diffusione dell’islamismo da lì in poi sarà la fortuna di questa bevanda che approderà intorno al XVII secolo in Europa, utilizzata anche in ambito medico. Bisogna ricordare le divergenze religiose legate al caffè: le autorità religiose musulmane o i monaci sufi lo utilizzavano durante i riti religiosi; quelle cristiane definivano il "vino d' Arabia" come la "bevanda del diavolo". Oggi ovviamente, il caffè è parte irrinunciabile della vita quotidiana dell’italiano medio, bevuto al bar o fatto alla moka poco cambia, se non dal punto di vista della cremosità e della consistenza dell'aroma. Certo che per bere un buon caffè è necessario avere a disposizione una buona miscela e seguire alcune regole, come non lavare la moka con il detersivo o non riempirla oltre la valvola di sicurezza. Il resto sta nel gustare a fondo una bella tazzina di caffè, magari in buona compagnia e sfruttare così a pieno le proprietà tonificanti del caffè all' italiana.
PUBBLICATO NEL GENNAIO 2021
LI PURCIDDUZZI
di Massimo Peluso
Riconosciuti a livello nazionale come prodotto alimentare tipico, “li purcidduzzi” sono da sempre tra i dolci più in voga della tradizione natalizia del Salento. Spesso confusi con gli struffoli napoletani dai meno esperti, si distinguono per la mancanza di uovo nell' impasto che li rende molto friabili e croccanti al palato. La vita di questo dolce si confonde tra leggenda e realtà: infatti, il mito vuole che l’invenzione della ricetta sia da attribuire ad una povera famiglia dove una madre, premurosa di preparare un dolcetto di Natale per i tanti figli, si inventò questi gnocchetti con ciò che aveva in casa. Un altro mito invece, racconta che i contadini, soliti regalare ai loro signori un porcellino a Natale per avere la loro protezione, col tempo lo sostituirono con i purcidduzzi, proprio a forma di porcellino e da qui il nome che sotto varianti locali è arrivato ai giorni nostri. Nella realtà però, possiamo affermare che questi prelibati dolcetti abbiano origine già dal tempo della Magna Grecia intorno al VII secolo a.C. e siano da attribuire ai poveri contadini dell’epoca. La ricetta prevede l’utilizzo di ingredienti alla portata di tutti: si impastano farina, vino bianco, acqua, sale, olio extravergine e in alcuni casi un po' di lievito di birra, sino ad ottenere un composto di media consistenza. Successivamente, si fanno dei piccoli gnocchetti aiutandosi con il retro di una grattugia o con una forchetta e si procede a friggerli con olio d’oliva extravergine, meglio se aromatizzato agli agrumi. Una volta ricavati i nostri purcidduzzi, li possiamo sistemare su di un vassoio e condirli a piacere con miele, mandorle sgusciate, pinoli e cannella in polvere. Una ricetta povera sì, ma dal sapore intenso ed attuale, con qualche caloria di troppo, ma a cui non si rinuncia a maggior ragione in questo Natale così complicato.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
Riconosciuti a livello nazionale come prodotto alimentare tipico, “li purcidduzzi” sono da sempre tra i dolci più in voga della tradizione natalizia del Salento. Spesso confusi con gli struffoli napoletani dai meno esperti, si distinguono per la mancanza di uovo nell' impasto che li rende molto friabili e croccanti al palato. La vita di questo dolce si confonde tra leggenda e realtà: infatti, il mito vuole che l’invenzione della ricetta sia da attribuire ad una povera famiglia dove una madre, premurosa di preparare un dolcetto di Natale per i tanti figli, si inventò questi gnocchetti con ciò che aveva in casa. Un altro mito invece, racconta che i contadini, soliti regalare ai loro signori un porcellino a Natale per avere la loro protezione, col tempo lo sostituirono con i purcidduzzi, proprio a forma di porcellino e da qui il nome che sotto varianti locali è arrivato ai giorni nostri. Nella realtà però, possiamo affermare che questi prelibati dolcetti abbiano origine già dal tempo della Magna Grecia intorno al VII secolo a.C. e siano da attribuire ai poveri contadini dell’epoca. La ricetta prevede l’utilizzo di ingredienti alla portata di tutti: si impastano farina, vino bianco, acqua, sale, olio extravergine e in alcuni casi un po' di lievito di birra, sino ad ottenere un composto di media consistenza. Successivamente, si fanno dei piccoli gnocchetti aiutandosi con il retro di una grattugia o con una forchetta e si procede a friggerli con olio d’oliva extravergine, meglio se aromatizzato agli agrumi. Una volta ricavati i nostri purcidduzzi, li possiamo sistemare su di un vassoio e condirli a piacere con miele, mandorle sgusciate, pinoli e cannella in polvere. Una ricetta povera sì, ma dal sapore intenso ed attuale, con qualche caloria di troppo, ma a cui non si rinuncia a maggior ragione in questo Natale così complicato.
PUBBLICATO NEL DICEMBRE 2020
LA CAROTA
di Massimo Peluso
Ortaggio assai diffuso, facente parte della famiglia delle Apiacee, la carota è conosciuta dall'uomo sin dai tempi dell'Antica Roma ed utilizzata specialmente in Europa ed Asia a fini curativi, approfittando del fatto di essere una pianta selvatica e spontanea. Analizzando le origini di questo ortaggio, un po' di confusione è facile ritrovarla: infatti per molti secoli è stato scambiato per una pianta assai simile, la pastinaca sativa di colore bianco, e solo il famoso medico greco Galeno riuscì ad evidenziare la diversità tra le due specie. L' ortaggio si presenta con un fusto verde di qualche decina di centimetri con delle infiorescenze bianche, mentre la parte che utilizziamo comunemente, chiamandola carota, è la lunga radice a fittone color arancio. Oggi se ne conoscono diverse varietà, ma si ritiene che il colore originale delle carote fosse il viola, poi venuto a modificarsi nel tempo sino ai giorni nostri. Che le carote facciano bene alla nostra salute è ormai risaputo: la varietà arancione, ricca di vitamina A, ha effetti benefici per gli occhi e la pelle; quella viola, ricca di antiossidanti, combatte l'invecchiamento ed aiuta il cuore. Più in generale, altri effetti positivi sono svolti a sostegno dei problemi allo stomaco, al fegato ed alle vie intestinali per cui sono da sempre utilizzate in campo medicinale. In cucina, quest'ortaggio trova un largo utilizzo in particolare nei sughi o nei brodi delle nostre nonne o magari tagliato finemente in una bella insalata. E per concludere, provate le carote al rosmarino, semplicemente tagliate stile patatine fritte, soffritte in padella con un filo d'olio e spicchio d'aglio, aggiunta di pezzetti di pollo ben rosolato e rosmarino. Una bontà, fateci sapere...
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
Ortaggio assai diffuso, facente parte della famiglia delle Apiacee, la carota è conosciuta dall'uomo sin dai tempi dell'Antica Roma ed utilizzata specialmente in Europa ed Asia a fini curativi, approfittando del fatto di essere una pianta selvatica e spontanea. Analizzando le origini di questo ortaggio, un po' di confusione è facile ritrovarla: infatti per molti secoli è stato scambiato per una pianta assai simile, la pastinaca sativa di colore bianco, e solo il famoso medico greco Galeno riuscì ad evidenziare la diversità tra le due specie. L' ortaggio si presenta con un fusto verde di qualche decina di centimetri con delle infiorescenze bianche, mentre la parte che utilizziamo comunemente, chiamandola carota, è la lunga radice a fittone color arancio. Oggi se ne conoscono diverse varietà, ma si ritiene che il colore originale delle carote fosse il viola, poi venuto a modificarsi nel tempo sino ai giorni nostri. Che le carote facciano bene alla nostra salute è ormai risaputo: la varietà arancione, ricca di vitamina A, ha effetti benefici per gli occhi e la pelle; quella viola, ricca di antiossidanti, combatte l'invecchiamento ed aiuta il cuore. Più in generale, altri effetti positivi sono svolti a sostegno dei problemi allo stomaco, al fegato ed alle vie intestinali per cui sono da sempre utilizzate in campo medicinale. In cucina, quest'ortaggio trova un largo utilizzo in particolare nei sughi o nei brodi delle nostre nonne o magari tagliato finemente in una bella insalata. E per concludere, provate le carote al rosmarino, semplicemente tagliate stile patatine fritte, soffritte in padella con un filo d'olio e spicchio d'aglio, aggiunta di pezzetti di pollo ben rosolato e rosmarino. Una bontà, fateci sapere...
PUBBLICATO NEL NOVEMBRE 2020
OLIO D'OLIVA
di Massimo Peluso
L' olio d' oliva rappresenta sicuramente una delle eccellenze e dei simboli dell’italianità nel mondo, oltre che un’icona del Salento: decine e decine di chilometri di strade circondate da meravigliosi e secolari ulivi, in parte devastati purtroppo dal fenomeno xylella. La storia di questi alberi e del loro prodotto per antonomasia risale ad almeno 6500 anni fa, dove in territorio palestinese l’olio aveva diversi utilizzi sia dal punto di vista medico, sia da combustibile per le lampade. Nei millenni che seguono, l’olio diventa un importante prodotto per il commercio, specie nell'antico Egitto, per poi essere portato al massimo splendore da greci e romani: sono proprio quest'ultimi ad estendere la coltivazione degli ulivi anche in territori meno indicati dal punto di vista climatico. Dopo il periodo medievale favorevole ai grassi di provenienza animale, intorno al 1500 l’Italia raggiunge il primato in quanto a produzione e partendo dalla Toscana, l’olio diventa un alimento indispensabile per la cucina del nostro paese, in particolare quello extra vergine prodotto nei frantoi dalla spremitura meccanica delle olive. Dal salato sino al dolce, l'olio extravergine d'oliva si presta ad innumerevoli preparazioni: a crudo come le insalate o magari come condimento di una frisa o di una fetta di pane raffermo al pomodoro, dove riesce a dare quel suo gusto inconfondibile. Dal punto di vista nutrizionale, l'extravergine è portatore di vitamine e di antiossidanti che svolgono funzioni importanti di prevenzione delle malattie al cuore, oltre che far bene alla pelle, al sistema nervoso e al rallentamento dell'invecchiamento. Insomma, un prodotto d' elite che tutto il mondo ci invidia e nonostante la concorrenza di altri popoli, l'olio salentino rimane il migliore, potendo contare su di un clima ed un terreno estremamente favorevoli.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2020
L' olio d' oliva rappresenta sicuramente una delle eccellenze e dei simboli dell’italianità nel mondo, oltre che un’icona del Salento: decine e decine di chilometri di strade circondate da meravigliosi e secolari ulivi, in parte devastati purtroppo dal fenomeno xylella. La storia di questi alberi e del loro prodotto per antonomasia risale ad almeno 6500 anni fa, dove in territorio palestinese l’olio aveva diversi utilizzi sia dal punto di vista medico, sia da combustibile per le lampade. Nei millenni che seguono, l’olio diventa un importante prodotto per il commercio, specie nell'antico Egitto, per poi essere portato al massimo splendore da greci e romani: sono proprio quest'ultimi ad estendere la coltivazione degli ulivi anche in territori meno indicati dal punto di vista climatico. Dopo il periodo medievale favorevole ai grassi di provenienza animale, intorno al 1500 l’Italia raggiunge il primato in quanto a produzione e partendo dalla Toscana, l’olio diventa un alimento indispensabile per la cucina del nostro paese, in particolare quello extra vergine prodotto nei frantoi dalla spremitura meccanica delle olive. Dal salato sino al dolce, l'olio extravergine d'oliva si presta ad innumerevoli preparazioni: a crudo come le insalate o magari come condimento di una frisa o di una fetta di pane raffermo al pomodoro, dove riesce a dare quel suo gusto inconfondibile. Dal punto di vista nutrizionale, l'extravergine è portatore di vitamine e di antiossidanti che svolgono funzioni importanti di prevenzione delle malattie al cuore, oltre che far bene alla pelle, al sistema nervoso e al rallentamento dell'invecchiamento. Insomma, un prodotto d' elite che tutto il mondo ci invidia e nonostante la concorrenza di altri popoli, l'olio salentino rimane il migliore, potendo contare su di un clima ed un terreno estremamente favorevoli.
PUBBLICATO NELL'OTTOBRE 2020
RICOTTA SCANTE
di Massimo Peluso
La ricotta scante, conosciuta più comunemente come ricotta forte, fa parte delle specialità alimentari esclusive del Salento ed è inserita tra i prodotti PAT (prodotto alimentare tipico). Si caratterizza per un sapore piccante ed accentuato che dà alle preparazioni della nostra terra quel qualcosa in più. La preparazione è simile a quella della ricotta dolce tradizionale, utilizzando il siero del latte vaccino, il quale viene riscaldato a temperatura poco al di sotto dei 100 gradi negli stabilimenti caseari. Solo a questo punto, la ricotta ottenuta viene sistemata in fiscelle in modo da perdere la parte liquida; infine, fermenta naturalmente in contenitori di terracotta per poi essere impastata ed andare incontro alla stagionatura di circa un mese ed alla salatura, sino ad ottenere un formaggio spalmabile e saporitissimo. Tra gli impieghi più comuni della ricotta forte ricordiamo soprattutto i cavatelli e le orecchiette al pomodoro, ma anche i panzerotti fritti, detti anche calzoni: un’esplosione di gusto per palati a cui piacciono i sapori decisi ed avvolgenti. La storia di questo prodotto risale almeno al 1500 ed è menzionato da storici come Girolamo Marciano che in uno dei suoi scritti la descrive: “volgarmente uschiante per il sapore alquanto mordace, che contrae nella confettura". Come rinunciare quindi, ad un prodotto che ha fatto la storia della nostra terra e che tiene in vita il ricordo dei nostri nonni, che davanti ad un bel piatto di maccheroni, difficilmente rinunciavano ad una spalmata di ricotta scante.
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2020
La ricotta scante, conosciuta più comunemente come ricotta forte, fa parte delle specialità alimentari esclusive del Salento ed è inserita tra i prodotti PAT (prodotto alimentare tipico). Si caratterizza per un sapore piccante ed accentuato che dà alle preparazioni della nostra terra quel qualcosa in più. La preparazione è simile a quella della ricotta dolce tradizionale, utilizzando il siero del latte vaccino, il quale viene riscaldato a temperatura poco al di sotto dei 100 gradi negli stabilimenti caseari. Solo a questo punto, la ricotta ottenuta viene sistemata in fiscelle in modo da perdere la parte liquida; infine, fermenta naturalmente in contenitori di terracotta per poi essere impastata ed andare incontro alla stagionatura di circa un mese ed alla salatura, sino ad ottenere un formaggio spalmabile e saporitissimo. Tra gli impieghi più comuni della ricotta forte ricordiamo soprattutto i cavatelli e le orecchiette al pomodoro, ma anche i panzerotti fritti, detti anche calzoni: un’esplosione di gusto per palati a cui piacciono i sapori decisi ed avvolgenti. La storia di questo prodotto risale almeno al 1500 ed è menzionato da storici come Girolamo Marciano che in uno dei suoi scritti la descrive: “volgarmente uschiante per il sapore alquanto mordace, che contrae nella confettura". Come rinunciare quindi, ad un prodotto che ha fatto la storia della nostra terra e che tiene in vita il ricordo dei nostri nonni, che davanti ad un bel piatto di maccheroni, difficilmente rinunciavano ad una spalmata di ricotta scante.
PUBBLICATO NEL SETTEMBRE 2020
O 'BABA'
di Massimo Peluso
Quando si parla di babà non si può non pensare alla grande pasticceria napoletana, tra le più rinomate al mondo. In pochi però, conoscono l’origine di questa delizia dell’Alsazia Lorena presso i nostri cugini francesi, che ne hanno ripreso parte della preparazione dai polacchi. Molto probabilmente è il suocero di re Luigi XV ad inventare il babà che oggi possiamo gustare nelle pasticcerie partenopee e non solo. Intorno al 1840 invece, questo dolce arriva a Napoli dove ne parla lo chef Angeletti descrivendone la ricetta a base di uvetta. Potremmo elencare numerose varianti del babà tra cui la celebre al rum o quella ripiena alla panna, ma il vero segreto è una corretta lievitazione e cottura. L' impasto prevede l’utilizzo di farina Manitoba, uova, lievito, burro e zucchero amalgamati con cura sino ad ottenere un composto morbido al punto giusto che va fatto riposare e lievitare naturalmente. Nel frattempo va preparata la bagna: si scioglie in padella lo zucchero e si aggiunge qualche buccia d'arancia per poi unire il tutto al rum sino ad ottenere un infuso profumatissimo. Dopo la giusta lievitazione, il babà va cotto in forno in appositi stampi da cui prenderà la forma a fungo. Passati circa 40 minuti vanno sfornati, raffreddati, immersi nella bagna al rum e strizzati appena. A piacere si può aggiungere confettura di albicocca o farcire con panna, crema o crema al cioccolato: il risultato è assicurato perché, come diceva Marisa Laurito: "O' Babà è na cosa seria".
PUBBLICATO NELL'AGOSTO 2020
Quando si parla di babà non si può non pensare alla grande pasticceria napoletana, tra le più rinomate al mondo. In pochi però, conoscono l’origine di questa delizia dell’Alsazia Lorena presso i nostri cugini francesi, che ne hanno ripreso parte della preparazione dai polacchi. Molto probabilmente è il suocero di re Luigi XV ad inventare il babà che oggi possiamo gustare nelle pasticcerie partenopee e non solo. Intorno al 1840 invece, questo dolce arriva a Napoli dove ne parla lo chef Angeletti descrivendone la ricetta a base di uvetta. Potremmo elencare numerose varianti del babà tra cui la celebre al rum o quella ripiena alla panna, ma il vero segreto è una corretta lievitazione e cottura. L' impasto prevede l’utilizzo di farina Manitoba, uova, lievito, burro e zucchero amalgamati con cura sino ad ottenere un composto morbido al punto giusto che va fatto riposare e lievitare naturalmente. Nel frattempo va preparata la bagna: si scioglie in padella lo zucchero e si aggiunge qualche buccia d'arancia per poi unire il tutto al rum sino ad ottenere un infuso profumatissimo. Dopo la giusta lievitazione, il babà va cotto in forno in appositi stampi da cui prenderà la forma a fungo. Passati circa 40 minuti vanno sfornati, raffreddati, immersi nella bagna al rum e strizzati appena. A piacere si può aggiungere confettura di albicocca o farcire con panna, crema o crema al cioccolato: il risultato è assicurato perché, come diceva Marisa Laurito: "O' Babà è na cosa seria".
PUBBLICATO NELL'AGOSTO 2020
LA SALSA
di Massimo Peluso
Portato in Europa dal navigatore spagnolo Hernan Cortes, intorno alla metà del XVI secolo, il pomodoro è tra i frutti più ricercati della gastronomia italiana e salentina in particolare. Appartiene alla famiglia delle Solanacee e grazie ai moderni mezzi di coltivazione, è praticamente reperibile tutto l'anno per accompagnare qualsiasi piatto. Ha origine nell'America Centro-meridionale dove già ne veniva apprezzato il sugo dal sapore acidulo e ribattezzato "pomo d'oro" dai sovrani britannici, prima di fare il suo ingresso in Italia tramite l'influenza spagnola dei Borboni in Sicilia. Si conoscono numerose specie di pomodori: dal San Marzano, al ciliegino, sino ad arrivare al pomodorino giallo, ma parlare di questo ortaggio vuol dire anche pasta, pizza e quindi salsa di pomodoro. Oramai, numerose aziende alimentari producono tonnellate di salse e sughi già pronti, a vantaggio della vita frenetica del nostro tempo ma, ancora oggi, tante massaie temerarie continuano durante il periodo estivo, a farsi la salsa fatta in casa in vista del periodo freddo. La tradizione vuole che una o più famiglie, si riuniscano all' alba o all' imbrunire per preparare la salsa nel momento più fresco della giornata, dopo aver nei giorni precedenti "spinnato" i pomodori, togliendo il peduncolo, per poi lasciarli maturare un paio di giorni. A questo punto, vengono lavati in grandi vasconi e rotti leggermente avvalendosi dell'aiuto anche dei più piccoli di casa, per poi passare alla fase della cottura in grandi padelloni posizionati su fornelloni a terra, collegati ad apposita bombola a gas. Qui ai pomodori sono aggiunti sale e basilico, per poi arrivare ad ebollizione e ricavare la salsa tramite il passapomodoro manuale o elettrico. Dopo di che, la salsa viene versata nelle bottiglie e messa a bagnomaria per almeno mezz'ora, al fine di garantirne la giusta conservazione in modo del tutto naturale. Nei giorni successivi verrà posizionata negli appositi scaffali, tra la stanchezza e la gioia delle nostre donne di casa, le quali continuano a mantenere vive tradizioni e sapori nostrani.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
Portato in Europa dal navigatore spagnolo Hernan Cortes, intorno alla metà del XVI secolo, il pomodoro è tra i frutti più ricercati della gastronomia italiana e salentina in particolare. Appartiene alla famiglia delle Solanacee e grazie ai moderni mezzi di coltivazione, è praticamente reperibile tutto l'anno per accompagnare qualsiasi piatto. Ha origine nell'America Centro-meridionale dove già ne veniva apprezzato il sugo dal sapore acidulo e ribattezzato "pomo d'oro" dai sovrani britannici, prima di fare il suo ingresso in Italia tramite l'influenza spagnola dei Borboni in Sicilia. Si conoscono numerose specie di pomodori: dal San Marzano, al ciliegino, sino ad arrivare al pomodorino giallo, ma parlare di questo ortaggio vuol dire anche pasta, pizza e quindi salsa di pomodoro. Oramai, numerose aziende alimentari producono tonnellate di salse e sughi già pronti, a vantaggio della vita frenetica del nostro tempo ma, ancora oggi, tante massaie temerarie continuano durante il periodo estivo, a farsi la salsa fatta in casa in vista del periodo freddo. La tradizione vuole che una o più famiglie, si riuniscano all' alba o all' imbrunire per preparare la salsa nel momento più fresco della giornata, dopo aver nei giorni precedenti "spinnato" i pomodori, togliendo il peduncolo, per poi lasciarli maturare un paio di giorni. A questo punto, vengono lavati in grandi vasconi e rotti leggermente avvalendosi dell'aiuto anche dei più piccoli di casa, per poi passare alla fase della cottura in grandi padelloni posizionati su fornelloni a terra, collegati ad apposita bombola a gas. Qui ai pomodori sono aggiunti sale e basilico, per poi arrivare ad ebollizione e ricavare la salsa tramite il passapomodoro manuale o elettrico. Dopo di che, la salsa viene versata nelle bottiglie e messa a bagnomaria per almeno mezz'ora, al fine di garantirne la giusta conservazione in modo del tutto naturale. Nei giorni successivi verrà posizionata negli appositi scaffali, tra la stanchezza e la gioia delle nostre donne di casa, le quali continuano a mantenere vive tradizioni e sapori nostrani.
PUBBLICATO NEL LUGLIO 2020
"LI SARDE"
di Massimo Peluso
Facenti parte della famiglia dei Clupeidi e spesso identificate come un pesce di serie B, le sarde, dette anche sardine, sono tra i rappresentanti più noti dei cosiddetti pesci azzurri, come ad esempio l’acciuga, l’aringa o il tonno rosso. Molto diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, si presentano di colore dorato con strisce verde – azzurro, una pinna biforcuta e vengono pescate durante tutto l’anno, specie nel periodo primaverile. Spesso e volentieri, le sarde non hanno buon mercato nelle nostre pescherie in quanto non molto apprezzate dai consumatori e utilizzate come esche da pesca. Dal punto di vista nutrizionale è un pesce assai benefico per la nostra salute: è ricco di omega 3 che protegge il cuore, di iodio essenziale per un corretto metabolismo, di vitamine e sali minerali che proteggono vista e ossa, e di proteine nobili che fanno molto bene soprattutto ai più piccoli. In cucina le sarde si prestano a diverse preparazioni, tra cui ricordiamo la pasta con le sarde di origini siciliana con l’aggiunta di pan grattato, gratinate al forno, fritte con involucro di uovo e farina; infine sott’olio dopo averle spinate e marinate con sale e limone, ottime per accompagnare il pane raffermo o gli antipasti. Insomma, nonostante non siano amate dai più giovani, le sarde conservano un posto nella nostra cucina tradizionale, segnando la storia salentina e dei pescatori d’Italia ad un prezzo accessibile.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
Facenti parte della famiglia dei Clupeidi e spesso identificate come un pesce di serie B, le sarde, dette anche sardine, sono tra i rappresentanti più noti dei cosiddetti pesci azzurri, come ad esempio l’acciuga, l’aringa o il tonno rosso. Molto diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, si presentano di colore dorato con strisce verde – azzurro, una pinna biforcuta e vengono pescate durante tutto l’anno, specie nel periodo primaverile. Spesso e volentieri, le sarde non hanno buon mercato nelle nostre pescherie in quanto non molto apprezzate dai consumatori e utilizzate come esche da pesca. Dal punto di vista nutrizionale è un pesce assai benefico per la nostra salute: è ricco di omega 3 che protegge il cuore, di iodio essenziale per un corretto metabolismo, di vitamine e sali minerali che proteggono vista e ossa, e di proteine nobili che fanno molto bene soprattutto ai più piccoli. In cucina le sarde si prestano a diverse preparazioni, tra cui ricordiamo la pasta con le sarde di origini siciliana con l’aggiunta di pan grattato, gratinate al forno, fritte con involucro di uovo e farina; infine sott’olio dopo averle spinate e marinate con sale e limone, ottime per accompagnare il pane raffermo o gli antipasti. Insomma, nonostante non siano amate dai più giovani, le sarde conservano un posto nella nostra cucina tradizionale, segnando la storia salentina e dei pescatori d’Italia ad un prezzo accessibile.
PUBBLICATO NEL GIUGNO 2020
LIEVITO MADRE
di Massimo Peluso
Gli effetti del cosiddetto “lock – down” hanno portato notevoli cambiamenti nel nostro stile di vita quotidiano, provocando, specie nelle prime settimane, l’assalto ai supermercati in cerca di farina e lievito, sia per prodotti salati che per i dolci. E a proposito di lieviti, spesso e volentieri si acquista il lievito di birra, ma in pochi considerano la possibilità di prepararsi a casa propria il primogenito di tutti i lieviti, ossia il lievito madre. Infatti, basterebbe avere in casa farina e acqua per produrlo, ma di questo parleremo in seguito: ora facciamo un excursus storico su di esso. Circa 4000 anni fa gli egizi producevano il pane azzimo, impastato e cotto senza lievitazione, che spesso abbiamo sentito nominare nei testi biblici. Solo in seguito si scoprì che, lasciando riposare l’impasto, questo aumentava il suo volume a vantaggio di un ottimo odore e di un prodotto croccante e soffice allo stesso tempo: si sta per scoprire la lievitazione e di conseguenza il lievito madre. Possiamo considerarlo come un vero organismo vivente, nel quale agiscono tantissimi microrganismi e che si nutre attraverso le “cure” di un panificatore o di una massaia. Ma come prepararlo in casa? Basta avere 200 g di Farina 0 e 100 g di acqua, impastarli e far riposare per almeno due giorni la pastella ottenuta, in un contenitore in vetro coperto. Poi si procede al cosiddetto “rinfresco”, prendendo una parte dell’impasto, a cui va aggiunta farina e acqua per almeno due settimane, per facilitarne la fermentazione. A questo punto il rinfresco può essere effettuato una volta a settimana: il nostro lievito madre è nato e se ne avremo cura, sarà con noi tutta la nostra vita, per regalarci pane o pizze più saporite e digeribili.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2020
Gli effetti del cosiddetto “lock – down” hanno portato notevoli cambiamenti nel nostro stile di vita quotidiano, provocando, specie nelle prime settimane, l’assalto ai supermercati in cerca di farina e lievito, sia per prodotti salati che per i dolci. E a proposito di lieviti, spesso e volentieri si acquista il lievito di birra, ma in pochi considerano la possibilità di prepararsi a casa propria il primogenito di tutti i lieviti, ossia il lievito madre. Infatti, basterebbe avere in casa farina e acqua per produrlo, ma di questo parleremo in seguito: ora facciamo un excursus storico su di esso. Circa 4000 anni fa gli egizi producevano il pane azzimo, impastato e cotto senza lievitazione, che spesso abbiamo sentito nominare nei testi biblici. Solo in seguito si scoprì che, lasciando riposare l’impasto, questo aumentava il suo volume a vantaggio di un ottimo odore e di un prodotto croccante e soffice allo stesso tempo: si sta per scoprire la lievitazione e di conseguenza il lievito madre. Possiamo considerarlo come un vero organismo vivente, nel quale agiscono tantissimi microrganismi e che si nutre attraverso le “cure” di un panificatore o di una massaia. Ma come prepararlo in casa? Basta avere 200 g di Farina 0 e 100 g di acqua, impastarli e far riposare per almeno due giorni la pastella ottenuta, in un contenitore in vetro coperto. Poi si procede al cosiddetto “rinfresco”, prendendo una parte dell’impasto, a cui va aggiunta farina e acqua per almeno due settimane, per facilitarne la fermentazione. A questo punto il rinfresco può essere effettuato una volta a settimana: il nostro lievito madre è nato e se ne avremo cura, sarà con noi tutta la nostra vita, per regalarci pane o pizze più saporite e digeribili.
PUBBLICATO NEL MAGGIO 2020
AGNELLO DI PASTA REALE
di Massimo Peluso
Durante il periodo pasquale, la tradizione culinaria pugliese e nello specifico leccese, è ricca di pietanze e prelibatezze per tutti i gusti, tra cui oggi vogliamo mensionare l’agnello di pasta reale. Detto anche agnello in pasta di mandorla, questo dolce è tra i più presenti nelle nostre pasticcerie, oltre ad essere spesso preparato dalle nonnine più esperte, in quanto le dosi e la qualità dei prodotti renderanno più o meno perfetto il risultato finale. Da riscontri storici, risulta che l’idea dell’agnello dolce è da attribuire ad un gruppo di suore evangeliste leccesi, le quali per ringraziare i propri benefattori, lo regalavano per la festività della Santa Pasqua. Ovviamente, la scelta dell’agnello non è casuale, ma è legata al significato cristiano che esso assume, collegandosi alla tradizione ebraica, come descritto nel libro dell’Esodo. La preparazione dell’agnello in pasta reale prevede dapprima la triturazione delle mandorle, rigorosamente leccesi; in contemporanea cuocere lo zucchero in acqua sino ad arrivare al “filo” ed aggiungere le mandorle, prima di mescolare. A questo punto l’impasto va fatto riposare in frigo e si prepara la faldacchiera, una crema a base di tuorli d’uovo e zucchero cotta a bagnomaria, insieme alla composta di pere e la ganache di cioccolato, che serviranno per la farcitura. Solo ora il pasticcere o la massaia, possono iniziare con grande manualità a formare l’agnellino utilizzando appositi stampi; successivamente si provvede alla farcitura interna e ai confetti dorati come decorazione. Ora è tutto pronto per una Pasqua all’insegna della tradizione.
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
Durante il periodo pasquale, la tradizione culinaria pugliese e nello specifico leccese, è ricca di pietanze e prelibatezze per tutti i gusti, tra cui oggi vogliamo mensionare l’agnello di pasta reale. Detto anche agnello in pasta di mandorla, questo dolce è tra i più presenti nelle nostre pasticcerie, oltre ad essere spesso preparato dalle nonnine più esperte, in quanto le dosi e la qualità dei prodotti renderanno più o meno perfetto il risultato finale. Da riscontri storici, risulta che l’idea dell’agnello dolce è da attribuire ad un gruppo di suore evangeliste leccesi, le quali per ringraziare i propri benefattori, lo regalavano per la festività della Santa Pasqua. Ovviamente, la scelta dell’agnello non è casuale, ma è legata al significato cristiano che esso assume, collegandosi alla tradizione ebraica, come descritto nel libro dell’Esodo. La preparazione dell’agnello in pasta reale prevede dapprima la triturazione delle mandorle, rigorosamente leccesi; in contemporanea cuocere lo zucchero in acqua sino ad arrivare al “filo” ed aggiungere le mandorle, prima di mescolare. A questo punto l’impasto va fatto riposare in frigo e si prepara la faldacchiera, una crema a base di tuorli d’uovo e zucchero cotta a bagnomaria, insieme alla composta di pere e la ganache di cioccolato, che serviranno per la farcitura. Solo ora il pasticcere o la massaia, possono iniziare con grande manualità a formare l’agnellino utilizzando appositi stampi; successivamente si provvede alla farcitura interna e ai confetti dorati come decorazione. Ora è tutto pronto per una Pasqua all’insegna della tradizione.
PUBBLICATO NELL'APRILE 2020
FAE E FOGGHIE
di Massimo Peluso
Miseria e nobiltà, orgoglio e tradizione: tutto ciò descrive un piatto come le “Fae e Fogghie”, frutto della laboriosità e della forza di andare avanti delle famiglie contadine pugliesi, detto anche “Fae e foglie”. Difficile stabilire l’inventore del piatto, ma è lecito pensare che venisse consumato già intorno al 1700, dopo una storia alquanto tormentata, soprattutto riguardo le fave. Infatti questo legume, oggi più che mai presente nei menù delle nostre trattorie, in passato era considerato un portatore di morte: si narra che le civiltà più antiche le portassero in dono ai familiari dei deceduti perché contenevano le anime e solo con l’avvento dei romani ripresero il loro posto nelle tavole come un alimento importante, per poi venire declassate dai fagioli importati da Cristoforo Colombo. Più lineare la storia delle “Fogghie”, ossia le verdure classiche del nostro territorio, da sempre fonte di vitamine e sali minerali per i nostri contadini e scelte a seconda della stagione, come la cicoria selvatica o la catalogna. La preparazione della ricetta prevede l’utilizzo delle fave sgusciate secche in ammollo per circa dodici ore, scolate e messe a cuocere sino a che non si sfalderanno, diventando un vero e proprio purè. A parte, bollire le cicorie selvatiche o la catalogna e mettere in un piatto cupo le fave e le verdure in quantità uguali, condendo con un filo d’olio Extra-Vergine d’oliva. Ovviamente, la mano di un’esperta massaia saprà rendere il piatto speciale, tra la dolcezza delle fave e l’amarognolo delle verdure: la Puglia è scesa in campo… anzi in tavola!
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
Miseria e nobiltà, orgoglio e tradizione: tutto ciò descrive un piatto come le “Fae e Fogghie”, frutto della laboriosità e della forza di andare avanti delle famiglie contadine pugliesi, detto anche “Fae e foglie”. Difficile stabilire l’inventore del piatto, ma è lecito pensare che venisse consumato già intorno al 1700, dopo una storia alquanto tormentata, soprattutto riguardo le fave. Infatti questo legume, oggi più che mai presente nei menù delle nostre trattorie, in passato era considerato un portatore di morte: si narra che le civiltà più antiche le portassero in dono ai familiari dei deceduti perché contenevano le anime e solo con l’avvento dei romani ripresero il loro posto nelle tavole come un alimento importante, per poi venire declassate dai fagioli importati da Cristoforo Colombo. Più lineare la storia delle “Fogghie”, ossia le verdure classiche del nostro territorio, da sempre fonte di vitamine e sali minerali per i nostri contadini e scelte a seconda della stagione, come la cicoria selvatica o la catalogna. La preparazione della ricetta prevede l’utilizzo delle fave sgusciate secche in ammollo per circa dodici ore, scolate e messe a cuocere sino a che non si sfalderanno, diventando un vero e proprio purè. A parte, bollire le cicorie selvatiche o la catalogna e mettere in un piatto cupo le fave e le verdure in quantità uguali, condendo con un filo d’olio Extra-Vergine d’oliva. Ovviamente, la mano di un’esperta massaia saprà rendere il piatto speciale, tra la dolcezza delle fave e l’amarognolo delle verdure: la Puglia è scesa in campo… anzi in tavola!
PUBBLICATO NEL MARZO 2020
IL CAVOLO VERZA
di Massimo Peluso
Nonostante il periodo invernale, diversi ortaggi fanno capolino sulle nostre tavole, tra cui vogliamo ricordare il cavolo verza. Conosciuto anche con il nome di cavolo di Milano, questa pianta ha una lunga storia alle sue spalle: sembra infatti che, già nel XVI secolo, la Casata dei Savoia, ne facesse un utilizzo frequente nelle preparazioni culinarie e da qui si può affermare che, il cavolo verza, abbia avuto origine nelle zone mediterranee o atlantiche. Appartiene alla famiglia delle Brassicacee e presenta grande resistenza al freddo oltre che adattamento ai vari tipi di terreno: ecco spiegata la sua diffusione in tutto il nostro paese da nord a sud. Come tutti gli ortaggi, è ricco di sali minerali come calcio e fosforo e di vitamine C ed E; ha inoltre tanti benefici per l’organismo, specie per l’apparato digerente e la cura delle infiammazioni. In cucina può avere vari utilizzi, tra cui zuppe e minestre, oltre che per la preparazione del sushi. Il suo odore particolare durante la cottura, non lo rende molto amato tra i giovanissimi, ma in tanti amano quest’ortaggio così povero e nobile allo stesso tempo.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2020
Nonostante il periodo invernale, diversi ortaggi fanno capolino sulle nostre tavole, tra cui vogliamo ricordare il cavolo verza. Conosciuto anche con il nome di cavolo di Milano, questa pianta ha una lunga storia alle sue spalle: sembra infatti che, già nel XVI secolo, la Casata dei Savoia, ne facesse un utilizzo frequente nelle preparazioni culinarie e da qui si può affermare che, il cavolo verza, abbia avuto origine nelle zone mediterranee o atlantiche. Appartiene alla famiglia delle Brassicacee e presenta grande resistenza al freddo oltre che adattamento ai vari tipi di terreno: ecco spiegata la sua diffusione in tutto il nostro paese da nord a sud. Come tutti gli ortaggi, è ricco di sali minerali come calcio e fosforo e di vitamine C ed E; ha inoltre tanti benefici per l’organismo, specie per l’apparato digerente e la cura delle infiammazioni. In cucina può avere vari utilizzi, tra cui zuppe e minestre, oltre che per la preparazione del sushi. Il suo odore particolare durante la cottura, non lo rende molto amato tra i giovanissimi, ma in tanti amano quest’ortaggio così povero e nobile allo stesso tempo.
PUBBLICATO NEL FEBBRAIO 2020